Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire
À bout de souffle - 1959 - di Jean-Luc Godard
La rivoluzione in un respiro
Eccoci a un film francese che ha contribuito in maniera decisiva
alla rivoluzione del linguaggio cinematografico.
Si
può parlare di À bout de souffle (tr.
it. “Fino all’ultimo respiro”) come della seconda svolta storica nell’ambito
della tecnica e del linguaggio cinematografici, diciotto anni dopo il
leggendario Citizen Kane di Orson
Welles (1941).
Jean-Luc
Godard, Nouvelle Vague, Cahiers du Cinéma, cinéma-vérité, André
Bazin, François Truffaut; in buona sostanza è questa la catena di riferimenti e
di associazioni spontanee che sorgono d’un tratto quando, in talune
conversazioni, qualche “incauto” prova a nominare À bout de souffle.
Il
film di Godard, del 1959, (primo grosso progetto dell’autore, ispirato da un
soggetto di Truffaut), costituisce uno spartiacque nell’evoluzione dell’arte
cinematografica, chiude con una serie di convenzioni e di codici formali
fondati sull’estetica del montaggio
invisibile e della dialettica campo/controcampo
su cui era fondato il cinema classico hollywoodiano e allarga gli orizzonti
delle possibilità espressive a disposizione dei filmmaker di tutto il mondo.
In
qualche misura si può pensare ad À bout
de souffle come al manifesto della nouvelle
vague e dell’intero cinema moderno; un’opera che smantella i capisaldi di
un’estetica consolidata per avviare un nuovo processo di ricerca e di
arricchimento dell’universo cinematografico.
Per
avere un’idea più precisa della reale portata e della forza dirompente di À bout de souffle bisogna pensare
all’importanza che ha avuto il Manifesto
Tecnico della Letteratura Futurista di Marinetti, nella storia della letteratura italiana (e non solo), o al ruolo
svolto da Les Demoiselles d’Avignon di
Picasso, nella transizione verso la nuova frontiera della pittura contemporanea.
Costo
basso (40 milioni di franchi vecchi), girato in sole 4 settimane, impianti
scenografici azzerati, filmato en plein
air, illuminazione artificiale ridotta all’essenziale, mdp a mano in stile Cassavetes, recitazione
assolutamente libera e naïf, affidata
ad una straordinaria Jean Seberg (già una star
all’epoca), il cui personaggio è uno stupefacente cocktail tra il pericoloso
appeal della femme fatal e
l’innocenza luciferina di una baby doll
e alla “rivelazione” Jean-Paul Belmondo, in una personalissima rivisitazione
dell’eroe tragico del cinema noir:
questo, in sintesi, il miracolo di JLG, premiato a Berlino per la migliore
regia nel 1960.
Ma
per JLG non si tratta di una semplice ostentazione di povertà di mezzi,
originata da pruderie intellettuale,
un po’ snob e un po’ narcisistica; si tratta di liberare programmaticamente il
cineasta dai legacci delle ricche superproduzioni, si tratta di lavorare con
materiali agili, si tratta di ottenere procedure snelle e veloci, si tratta, in
definitiva, di raggiungere libertà e autonomia nel processo creativo; si
tratta, ancora, di poter sperimentare e ricercare, improvvisando.
Tracciato
il quadro dell’importanza storica di À
bout de souffle tentiamo un rapido passaggio tra i frames del film di JLG, autore e intellettuale finissimo.
La
quantità di innovazioni e di rotture del linguaggio codificato è tale che
sarebbe impossibile enumerarle, dal parlare
in macchina agli sconvolgenti e spiazzanti scavalcamenti
di campo che fecero rabbrividire gran parte della critica (specialmente
quella italiana!), dai raccordi volutamente
e scandalosamente sbagliati sulla nuca dei personaggi (sottolineati dalla
voce off che parla proprio della nuca
in questione) al traballante andamento della macchina a mano; agli stacchi
repentini da un ambiente all’altro senza alcuna mediazione formale
convenzionale: dissolvenza, campo vuoto, cut-away …
Ma
questa mole di forzature del lessico filmico, mixate con formule anche notevolmente retrò come la tendina ad iride, in
realtà, costituirà un’autentica riscrittura dei codici espressivi; riscrittura
che negli anni a seguire sarà il punto di riferimento e di partenza per
intere generazioni di audaci sperimentatori.
Indubbiamente
l’utilizzazione sistematica e programmatica del jump cut (falso raccordo), in tutto il film, resta la cifra
estetica di À bout de souffle;
attraverso il jump cut, Godard opera, appunto, un taglio netto con il
cosiddetto “cinema della trasparenza” e della continuità spaziale tipico della
tradizione classica americana, scatenando in molta critica specializzata
reazioni al limite dell’isterismo (ci si può fare un’idea leggendo il passaggio
estratto dal Brown Film Society Film
Bullettin).
Un
esempio solare del jump cut elevato a
sistema, lo ritroviamo in una scena
minore, sul piano dello sviluppo narrativo, ma molto significativa sul piano
dello sviluppo del nuovo linguaggio.
Michel Poiccard-Laszlo Kovàcs/Jean-Paul Belmondo, è un delinquente di mezza tacca ma molto particolare: un po’ poeta, un po’ filosofo esistenzialista, un po’
cialtrone; è in fuga continua, tanto dalla vita quanto dalla polizia, che lo
cerca per l’uccisione di un poliziotto.
Nel
suo girovagare clandestino Michel
ruba un’auto lussuosa e la porta da un ricettatore per ricavarne dei soldi
facili, ma il ricettatore lo identifica, attraverso la prima pagina del France Soir, come il ricercato per
l’uccisione del poliziotto e a sua volta approfitta della situazione per
tenersi la macchina senza pagare nulla.
In
questo breve episodio narrativo (2’20” circa) Godard fornisce un’idea precisa di come il cosiddetto falso raccordo possa offrire la possibilità di costruire una scena, di per sé piuttosto
convenzionale, con un crescendo sincopato di grande tensione drammatica,
grazie alle fratture visive di un montaggio programmaticamente rivoluzionario.
16 stacchi concentrati in poco più di due
minuti tra cui possiamo contare ben 11 jump
cuts a fronte di soli 5 raccordi
più o meno ortodossi: assolutamente sconvolgente!
Il
dialogo-scontro tra il ricettatore e il nostro eroe risulta completamente
ritmato da questo montaggio anticlassico che, piuttosto che nascondere le
cesure del racconto filmico, punta proprio sull’esaltazione di queste incertezze; di quelle discontinuità del processo narrativo che sono
perfettamente corrispondenti al reale scontro, prima verbale, poi fisico, tra i
due personaggi.
All’incalzare
della climax drammatica corrisponde, su un piano formale, la frequenza degli spezzettamenti di un montaggio articolato secondo raccordi sempre più ostentatamente falsi.
Così,
troviamo ripetuti stacchi sul
movimento dei personaggi che prosegue e si conclude sul raccordo successivo in maniera brusca e disomogenea (alterazione
del raccordo sul movimento) al limite
dell’overlapping; oppure
l’alterazione delle distanze nel raccordo
sull’asse e la ripetuta violazione della “legge dei 30°” (v. la voce jump cut nel PDT); operazioni
assolutamente proibite dall’ortodossia classica, ma che riescono a trasmettere,
splendidamente, la sensazione di disagio e di ansia del protagonista e la
situazione di assoluta precarietà in cui si trova.
Evidentemente,
ci troviamo al cospetto di una ridiscussione di tutto quanto il cinema classico
aveva sempre postulato.
Non
stupisce, dunque, come questa operazione di decostruzione e ricostruzione del
linguaggio cinematografico non lasciasse indifferenti i cinéphiles e gli studiosi di tutto il mondo; così, se a Berlino,
per esempio, Godard riceveva premi e riconoscimenti ufficiali, in Italia e negli
States veniva stroncato, dai più, come “eretico” e provocatore, o addirittura
incapace.
Gli
addetti ai lavori non potevano non intuire la reale portata della proposta di
Godard, attraverso À bout de souffle,
e si comprende bene come proprio l’Hollywood
System fondato sull’organizzazione industriale delle majors si sentisse maggiormente attaccato e messo in discussione da
questa nuova frontiera estetico-filosofica e produttiva.
Infatti,
come compresero tutti, più o meno rapidamente, si trattava di una rivoluzione
che investiva non solo l’arte ma anche e soprattutto l’industria culturale
cinematografica e la reale gestione di un certo tipo di potere che dal suo
controllo proveniva.
Il Video
À bout de souffle (1959; titolo italiano: Fino all'ultimo respiro) di Jean-Luc Godard from Fatti a Pezzi on Vimeo.
À bout de souffle: “Dediche, citazioni e citati”
·
L’edizione francese del film è dedicata alla Monogram Pictures, casa di produzione minore degli USA,
specializzata in B-movies.
·
Nel corso del film c’è un omaggio alla Hammer Film, casa di produzione inglese specializzata in film
horror di qualità commerciale.
·
I personaggi citano romanzi, nel corso dei dialoghi, come Dans un mois dans un an e Aimez-vous Brahms? di F. Sagan.
·
Ci sono riferimenti per cinéphiles
in diverse inquadrature: la sala cinematografica in cui si proietta Hiroshima, mon amour di Resnais; il
manifesto di Ten seconds to Hell di
Robert Aldrich; il manifesto dell’ultimo film con Humphrey Bogart, Il colosso d’argilla.
·
Si cita, attraverso uno dei due nomi del protagonista (Laszlo Kovàcs), un personaggio
(interpretato dallo stesso Belmondo) di un film di Claude Chabrol dello stesso
anno, À double tour (“A doppia mandata”).
·
Si citano, in vario modo, personaggi famosissimi, in ogni campo:
Faulkner, Renoir, Mozart, Eisenhower, De Gaulle, Lenin, Aragon.
·
Si citano, e non poteva essere altrimenti, i mitici Cahiers du Cinéma.
·
Nel film ci sono delle comparse davvero speciali: il regista noir Jean-Pierre Melville (nella parte
dello scrittore Parvulesco); il critico dei Cahiers
du Cinéma André S. Labarthe (nel ruolo di un intervistatore di Parvulesco);
il regista di commedie Philippe de Broca; il regista erotico José Bénazéraf; e, per finire, lo stesso Godard (nel ruolo
del passante delatore).
La critica americana
“Breathless” [“À bout de souffle”] è un
altro film senza scopo di Jean-Luc Godard, i cui dialoghi senza senso e il
cattivo montaggio sono glorificati dai “teorici del cinema” (smettetela di
ridere) come iniziatori di una nuova era del cinema, ma Hollywood chiaramente
non gli presta alcuna attenzione, e voi vedete forse la “Nouvelle Vague
francese” in testa alle classifiche dei botteghini? Io non credo. (…)
Infatti la occasionale
libertà stilistica di “Breathless” fu tutt’altro che una scelta artistica ma
piuttosto un atto di estrema pigrizia così come il tronfio Godard ha ridotto il
suo film “epico” di 3 ore in uno “sminuzzato pezzo di merda” di 90 minuti.
(passo
estratto dal Brown Film Society Film
Bullettin dell’epoca).
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Jean-Luc Godard |
Piccolo Dizionario Tecnico
Scavalcamento
di campo:
il découpage classico è fondato sulla dialettica campo/controcampo, sul
montaggio invisibile e sulla costruzione di uno spazio
ideale di 180 gradi entro il quale si dispone l’ambiente di ripresa.
Per
spiegare meglio, immaginiamo di trovarci di fronte ad una scena di dialogo; il
découpage classico ce la mostrerebbe, idealmente, così
·
Campo medio (d’insieme): inquadratura
laterale dei due personaggi l’uno di fronte all’altro (stacco).
·
Primo piano (campo): inquadratura
frontale del personaggio A che parla (stacco).
·
Primo piano (controcampo): inquadratura
frontale del personaggio B che risponde (stacco)
…, e così via.
Ora,
l’elemento determinante è che, una volta stabilita la posizione per la prima inquadratura d’insieme, la mdp si limiterà ad effettuare
spostamenti semicircolari, da destra a sinistra, e da sinistra a destra,
alternando campi e controcampi sui due personaggi ed
evitando accuratamente di oltrepassare la linea immaginaria che unisce la
fronte dei due personaggi stessi; dando luogo così, ad un ambiente di ripresa circoscritto in uno spazio fisico di 180 gradi.
Infatti,
se la mdp operasse spostamenti così
ampi da oltrepassare la linea immaginaria che unisce la fronte dei due
personaggi, rompendo la linea ideale che delimita i 180 gradi, finirebbe con
l’effettuare il proibitissimo scavalcamento
di campo; ottenendo due risultati tradizionalmente ritenuti catastrofici sul piano della piena comprensione della scena da parte dello spettatore:
1) inquadrare uno sfondo
diverso rispetto all’inquadratura di
partenza, con conseguente scambio delle posizioni dei personaggi sullo schermo
(da dx a sx e viceversa); 2) agli occhi dello spettatore, i personaggi
sembrerebbero guardare non più l’uno verso l’altro (come sarebbe normale), ma
entrambi nella stessa direzione (alterazione del raccordo di sguardo).
Cut-away: letteralmente “troncare,
recidere”/inserto; l’inserto (diegetico) è uno dei raccordi più utilizzati dal cosiddetto cinema della trasparenza.
E’
un piano di transizione che stacca da quello precedente (per esempio
la scena di una partenza da una stazione ferroviaria) per mostrare un’immagine
di transizione, appunto, che suggerisca l’idea del cambiamento di ambiente e del
trascorrere del tempo (per esempio il treno in corsa), e che prelude ad un
altro piano che mostrerà il luogo
d’arrivo (per esempio la stazione ferroviaria di destinazione).
Altri piani di transizione, sono le dissolvenze (d’apertura, di chiusura e
incrociata), oppure
gli antichi
titoli esplicativi in
sovrimpressione (sempre meno utilizzati).
Campo vuoto: il campo vuoto è uno dei principali raccordi utilizzati dall’estetica classica; è uno dei “trucchi” cui
si ricorreva abitualmente per “attenuare” la discontinuità spazio-temporale
della sequenza; semplicemente, si
tratta di conservare per un attimo la stessa inquadratura di un ambiente che, fino ad un istante prima,
“conteneva” un personaggio, ora uscito dal campo
di ripresa e diretto verso un altro luogo, che verrà inquadrato con il successivo stacco.
Jump cut: letteralmente “stacco
netto”/falso raccordo; il falso raccordo è ciò che l’ortodossia
classica definirebbe un raccordo
“sbagliato”; cioè una nuova inquadratura,
dopo uno stacco, che viola almeno 2
leggi fondamentali del montaggio
invisibile e del cosiddetto cinema
della trasparenza secondo le quali:
·
non si dovrebbero mai proporre due inquadrature
consecutive dello stesso personaggio, o di uno stesso oggetto, non
sufficientemente differenziate sotto l’aspetto dell’angolazione di ripresa (variazioni
non inferiori a 30 gradi) o della distanza dal soggetto (raccordo sull’asse).
·
Non si dovrebbero mai proporre più piani
di uno stesso personaggio che lo mostrino, in
continuità, in luoghi diversi e in momenti diversi, senza la mediazione di piani di transizione che attenuino il
salto e la discontinuità spazio-temporale della sequenza.
Raccordo
sull’asse: il raccordo sull’asse è un altro artificio del
découpage classico e consiste nel mostrare due momenti successivi di un’azione
in due inquadrature consecutive,
divise da uno stacco.
La
seconda inquadratura è ripresa sullo stesso asse della prima inquadratura, cioè mantenendo lo stesso angolo di ripresa e la stessa prospettiva, ma a distanza minore (raccordo sull’asse in avanti), o
maggiore (raccordo sull’asse indietro),
a seconda dell’effetto che si desidera ottenere rispetto al soggetto in campo.
Viene
frequentemente utilizzato per aumentare l’attenzione dello spettatore sul
soggetto in campo, oppure per dare
una visione più ampia del contesto in cui l’azione sta avvenendo, evitando di
“distrarre” lo spettatore mutandone il punto di vista con una variazione d’angolo di ripresa
inopportuna.
Raccordo sul
movimento:
è un'altra transizione molto diffusa,
in cui un movimento iniziato nell’inquadratura
precedente, dopo uno stacco, si
conclude nell’inquadratura
successiva, mantenendo il giusto continuum
e le giuste proporzioni grafiche all’interno del piano di ripresa e
“nascondendo” la meccanicità della narrazione.
Raccordo di
sguardo: è,
probabilmente, il più tipico e il più diffuso dei raccordi classici; consiste nel mostrare un personaggio che guarda
qualcosa (o qualcuno) e, dopo lo stacco,
mostrare immediatamente l’oggetto, o la persona, guardata dal personaggio nell’inquadratura precedente, nella posizione suggerita dall’inquadratura
precedente.
Per
esempio, se il personaggio X nell’inquadratura
1 sta osservando da un balcone qualcuno (o qualcosa) che in quel momento si
trova fuori campo, nell’inquadratura successiva 2 (dopo lo stacco), il personaggio Y (o la cosa Y) sarà mostrato con una ripresa dall’alto; cioè dalla posizione
che, a giudicare dalla inquadratura
1, possiamo attribuire al personaggio X.
Overlapping
editing:
letteralmente “montaggio sovrapposto”; l’overlapping
editing è un particolare effetto di montaggio in cui la parte finale di
un’azione, già mostrata nell’inquadratura
immediatamente precedente, viene nuovamente riproposta all’inizio dell’inquadratura successiva.
Generalmente
viene utilizzato, sul piano della narrazione, con funzioni di estensione temporale.
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