mercoledì 16 gennaio 2013

À bout de souffle: la nouvelle frontière del jump cut

Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire

 À bout de souffle - 1959 - di Jean-Luc Godard

La rivoluzione in un respiro

Eccoci a un film francese che ha contribuito in maniera decisiva alla rivoluzione del linguaggio cinematografico.
Si può parlare di À bout de souffle (tr. it. “Fino all’ultimo respiro”) come della seconda svolta storica nell’ambito della tecnica e del linguaggio cinematografici, diciotto anni dopo il leggendario Citizen Kane di Orson Welles (1941).
Jean-Luc Godard, Nouvelle Vague, Cahiers du Cinéma, cinéma-vérité, André Bazin, François Truffaut; in buona sostanza è questa la catena di riferimenti e di associazioni spontanee che sorgono d’un tratto quando, in talune conversazioni, qualche “incauto” prova a nominare À bout de souffle.
Il film di Godard, del 1959, (primo grosso progetto dell’autore, ispirato da un soggetto di Truffaut), costituisce uno spartiacque nell’evoluzione dell’arte cinematografica, chiude con una serie di convenzioni e di codici formali fondati sull’estetica del montaggio invisibile e della dialettica campo/controcampo su cui era fondato il cinema classico hollywoodiano e allarga gli orizzonti delle possibilità espressive a disposizione dei filmmaker di tutto il mondo.
In qualche misura si può pensare ad À bout de souffle come al manifesto della nouvelle vague e dell’intero cinema moderno; un’opera che smantella i capisaldi di un’estetica consolidata per avviare un nuovo processo di ricerca e di arricchimento dell’universo cinematografico.
Per avere un’idea più precisa della reale portata e della forza dirompente di À bout de souffle bisogna pensare all’importanza che ha avuto il Manifesto Tecnico della Letteratura Futurista di Marinetti, nella storia della letteratura italiana (e non solo), o al ruolo svolto da Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, nella transizione verso la nuova frontiera della pittura contemporanea.
Costo basso (40 milioni di franchi vecchi), girato in sole 4 settimane, impianti scenografici azzerati, filmato en plein air, illuminazione artificiale ridotta all’essenziale, mdp a mano in stile Cassavetes, recitazione assolutamente libera e naïf, affidata ad una straordinaria Jean Seberg (già una star all’epoca), il cui personaggio è uno stupefacente cocktail tra il pericoloso appeal della femme fatal e l’innocenza luciferina di una baby doll e alla “rivelazione” Jean-Paul Belmondo, in una personalissima rivisitazione dell’eroe tragico del cinema noir: questo, in sintesi, il miracolo di JLG, premiato a Berlino per la migliore regia nel 1960.
Ma per JLG non si tratta di una semplice ostentazione di povertà di mezzi, originata da pruderie intellettuale, un po’ snob e un po’ narcisistica; si tratta di liberare programmaticamente il cineasta dai legacci delle ricche superproduzioni, si tratta di lavorare con materiali agili, si tratta di ottenere procedure snelle e veloci, si tratta, in definitiva, di raggiungere libertà e autonomia nel processo creativo; si tratta, ancora, di poter sperimentare e ricercare, improvvisando.
Tracciato il quadro dell’importanza storica di À bout de souffle tentiamo un rapido passaggio tra i frames del film di JLG, autore e intellettuale finissimo.
La quantità di innovazioni e di rotture del linguaggio codificato è tale che sarebbe impossibile enumerarle, dal parlare in macchina agli sconvolgenti e spiazzanti scavalcamenti di campo che fecero rabbrividire gran parte della critica (specialmente quella italiana!), dai raccordi volutamente e scandalosamente sbagliati sulla nuca dei personaggi (sottolineati dalla voce off che parla proprio della nuca in questione) al traballante andamento della macchina a mano; agli stacchi repentini da un ambiente all’altro senza alcuna mediazione formale convenzionale: dissolvenza, campo vuoto, cut-away … 
Ma questa mole di forzature del lessico filmico, mixate con formule anche notevolmente retrò come la tendina ad iride, in realtà, costituirà un’autentica riscrittura dei codici espressivi; riscrittura che negli anni a seguire sarà il punto di riferimento e di partenza per intere generazioni di audaci sperimentatori.
Indubbiamente l’utilizzazione sistematica e programmatica del jump cut (falso raccordo), in tutto il film, resta la cifra estetica di À bout de souffle; attraverso il jump cut, Godard opera, appunto, un taglio netto con il cosiddetto “cinema della trasparenza” e della continuità spaziale tipico della tradizione classica americana, scatenando in molta critica specializzata reazioni al limite dell’isterismo (ci si può fare un’idea leggendo il passaggio estratto dal Brown Film Society Film Bullettin).
Un esempio solare del jump cut elevato a sistema, lo ritroviamo in una scena minore, sul piano dello sviluppo narrativo, ma molto significativa sul piano dello sviluppo del nuovo linguaggio.
Michel Poiccard-Laszlo Kovàcs/Jean-Paul Belmondo, è un delinquente di mezza tacca ma molto particolare: un po’ poeta, un po’ filosofo esistenzialista, un po’ cialtrone; è in fuga continua, tanto dalla vita quanto dalla polizia, che lo cerca per l’uccisione di un poliziotto.
Nel suo girovagare clandestino Michel ruba un’auto lussuosa e la porta da un ricettatore per ricavarne dei soldi facili, ma il ricettatore lo identifica, attraverso la prima pagina del France Soir, come il ricercato per l’uccisione del poliziotto e a sua volta approfitta della situazione per tenersi la macchina senza pagare nulla.
In questo breve episodio narrativo (2’20” circa) Godard fornisce un’idea precisa di come il cosiddetto falso raccordo possa offrire la possibilità di costruire una scena, di per sé piuttosto convenzionale, con un crescendo sincopato di grande tensione drammatica, grazie alle fratture visive di un montaggio programmaticamente rivoluzionario.
16 stacchi concentrati in poco più di due minuti tra cui possiamo contare ben 11 jump cuts a fronte di soli 5 raccordi più o meno ortodossi: assolutamente sconvolgente!
Il dialogo-scontro tra il ricettatore e il nostro eroe risulta completamente ritmato da questo montaggio anticlassico che, piuttosto che nascondere le cesure del racconto filmico, punta proprio sull’esaltazione di queste incertezze; di quelle discontinuità del processo narrativo che sono perfettamente corrispondenti al reale scontro, prima verbale, poi fisico, tra i due personaggi.
All’incalzare della climax drammatica corrisponde, su un piano formale, la frequenza degli spezzettamenti di un montaggio articolato secondo raccordi sempre più ostentatamente falsi.
Così, troviamo ripetuti stacchi sul movimento dei personaggi che prosegue e si conclude sul raccordo successivo in maniera brusca e disomogenea (alterazione del raccordo sul movimento) al limite dell’overlapping; oppure l’alterazione delle distanze nel raccordo sull’asse e la ripetuta violazione della “legge dei 30°” (v. la voce jump cut nel PDT); operazioni assolutamente proibite dall’ortodossia classica, ma che riescono a trasmettere, splendidamente, la sensazione di disagio e di ansia del protagonista e la situazione di assoluta precarietà in cui si trova.
Evidentemente, ci troviamo al cospetto di una ridiscussione di tutto quanto il cinema classico aveva sempre postulato.
Non stupisce, dunque, come questa operazione di decostruzione e ricostruzione del linguaggio cinematografico non lasciasse indifferenti i cinéphiles e gli studiosi di tutto il mondo; così, se a Berlino, per esempio, Godard riceveva premi e riconoscimenti ufficiali, in Italia e negli States veniva stroncato, dai più, come “eretico” e provocatore, o addirittura incapace.
Gli addetti ai lavori non potevano non intuire la reale portata della proposta di Godard, attraverso À bout de souffle, e si comprende bene come proprio l’Hollywood System fondato sull’organizzazione industriale delle majors si sentisse maggiormente attaccato e messo in discussione da questa nuova frontiera estetico-filosofica e produttiva.
Infatti, come compresero tutti, più o meno rapidamente, si trattava di una rivoluzione che investiva non solo l’arte ma anche e soprattutto l’industria culturale cinematografica e la reale gestione di un certo tipo di potere che dal suo controllo proveniva.

Il Video

À bout de souffle (1959; titolo italiano: Fino all'ultimo respiro) di Jean-Luc Godard from Fatti a Pezzi on Vimeo.

À bout de souffle: “Dediche, citazioni e citati”

·         L’edizione francese del film è dedicata alla Monogram Pictures, casa di produzione minore degli USA, specializzata in B-movies.

·         Nel corso del film c’è un omaggio alla Hammer Film, casa di produzione inglese specializzata in film horror di qualità commerciale.

·         I personaggi citano romanzi, nel corso dei dialoghi, come Dans un mois dans un an e Aimez-vous Brahms? di F. Sagan.

·         Ci sono riferimenti per cinéphiles in diverse inquadrature: la sala cinematografica in cui si proietta Hiroshima, mon amour di Resnais; il manifesto di Ten seconds to Hell di Robert Aldrich; il manifesto dell’ultimo film con Humphrey Bogart, Il colosso d’argilla.

·         Si cita, attraverso uno dei due nomi del protagonista (Laszlo Kovàcs), un personaggio (interpretato dallo stesso Belmondo) di un film di Claude Chabrol dello stesso anno, À double tour (“A doppia mandata”).

·         Si citano, in vario modo, personaggi famosissimi, in ogni campo: Faulkner, Renoir, Mozart, Eisenhower, De Gaulle, Lenin, Aragon.

·         Si citano, e non poteva essere altrimenti, i mitici Cahiers du Cinéma.

·         Nel film ci sono delle comparse davvero speciali: il regista noir Jean-Pierre Melville (nella parte dello scrittore Parvulesco); il critico dei Cahiers du Cinéma André S. Labarthe (nel ruolo di un intervistatore di Parvulesco); il regista di commedie Philippe de Broca; il regista erotico José Bénazéraf; e, per finire, lo stesso Godard (nel ruolo del passante delatore).

La critica americana


“Breathless” [“À bout de souffle”] è un altro film senza scopo di Jean-Luc Godard, i cui dialoghi senza senso e il cattivo montaggio sono glorificati dai “teorici del cinema” (smettetela di ridere) come iniziatori di una nuova era del cinema, ma Hollywood chiaramente non gli presta alcuna attenzione, e voi vedete forse la “Nouvelle Vague francese” in testa alle classifiche dei botteghini? Io non credo. (…)

Infatti la occasionale libertà stilistica di “Breathless” fu tutt’altro che una scelta artistica ma piuttosto un atto di estrema pigrizia così come il tronfio Godard ha ridotto il suo film “epico” di 3 ore in uno “sminuzzato pezzo di merda” di 90 minuti.

(passo estratto dal Brown Film Society Film Bullettin dell’epoca).



Jean-Luc Godard
Piccolo Dizionario Tecnico



Scavalcamento di campo: il découpage classico è fondato sulla dialettica campo/controcampo, sul montaggio invisibile e sulla costruzione di uno spazio ideale di 180 gradi entro il quale si dispone l’ambiente di ripresa.

Per spiegare meglio, immaginiamo di trovarci di fronte ad una scena di dialogo; il découpage classico ce la mostrerebbe, idealmente, così



·         Campo medio (d’insieme): inquadratura laterale dei due personaggi l’uno di fronte all’altro (stacco).

·         Primo piano (campo): inquadratura frontale del personaggio A che parla (stacco).

·         Primo piano (controcampo): inquadratura frontale del personaggio B che risponde (stacco) …, e così via.

Ora, l’elemento determinante è che, una volta stabilita la posizione per la prima inquadratura d’insieme, la mdp si limiterà ad effettuare spostamenti semicircolari, da destra a sinistra, e da sinistra a destra, alternando campi e controcampi sui due personaggi ed evitando accuratamente di oltrepassare la linea immaginaria che unisce la fronte dei due personaggi stessi; dando luogo così, ad un ambiente di ripresa circoscritto in uno spazio fisico di 180 gradi.

Infatti, se la mdp operasse spostamenti così ampi da oltrepassare la linea immaginaria che unisce la fronte dei due personaggi, rompendo la linea ideale che delimita i 180 gradi, finirebbe con l’effettuare il proibitissimo scavalcamento di campo; ottenendo due risultati tradizionalmente ritenuti catastrofici sul piano della piena comprensione della scena da parte dello spettatore:

1)      inquadrare uno sfondo diverso rispetto all’inquadratura di partenza, con conseguente scambio delle posizioni dei personaggi sullo schermo (da dx a sx e viceversa); 2) agli occhi dello spettatore, i personaggi sembrerebbero guardare non più l’uno verso l’altro (come sarebbe normale), ma entrambi nella stessa direzione (alterazione del raccordo di sguardo).



Cut-away: letteralmente “troncare, recidere”/inserto; l’inserto (diegetico) è uno dei raccordi più utilizzati dal cosiddetto cinema della trasparenza.
E’ un piano di transizione che stacca da quello precedente (per esempio la scena di una partenza da una stazione ferroviaria) per mostrare un’immagine di transizione, appunto, che suggerisca l’idea del cambiamento di ambiente e del trascorrere del tempo (per esempio il treno in corsa), e che prelude ad un altro piano che mostrerà il luogo d’arrivo (per esempio la stazione ferroviaria di destinazione).
Altri piani di transizione, sono le dissolvenze (d’apertura, di chiusura e incrociata), oppure gli antichi 
titoli esplicativi in sovrimpressione (sempre meno utilizzati).

Campo vuoto: il campo vuoto è uno dei principali raccordi utilizzati dall’estetica classica; è uno dei “trucchi” cui si ricorreva abitualmente per “attenuare” la discontinuità spazio-temporale della sequenza; semplicemente, si tratta di conservare per un attimo la stessa inquadratura di un ambiente che, fino ad un istante prima, “conteneva” un personaggio, ora uscito dal campo di ripresa e diretto verso un altro luogo, che verrà inquadrato con il successivo stacco.

Jump cut: letteralmente “stacco netto”/falso raccordo; il falso raccordo è ciò che l’ortodossia classica definirebbe un raccordo “sbagliato”; cioè una nuova inquadratura, dopo uno stacco, che viola almeno 2 leggi fondamentali del montaggio invisibile e del cosiddetto cinema della trasparenza secondo le quali:
·         non si dovrebbero mai proporre due inquadrature consecutive dello stesso personaggio, o di uno stesso oggetto, non sufficientemente differenziate sotto l’aspetto dell’angolazione di ripresa (variazioni non inferiori a 30 gradi) o della distanza dal soggetto (raccordo sull’asse).
·         Non si dovrebbero mai proporre più piani di uno stesso personaggio che lo mostrino, in continuità, in luoghi diversi e in momenti diversi, senza la mediazione di piani di transizione che attenuino il salto e la discontinuità spazio-temporale della sequenza.

Raccordo sull’asse: il raccordo sull’asse è un altro artificio del découpage classico e consiste nel mostrare due momenti successivi di un’azione in due inquadrature consecutive, divise da uno stacco.
La seconda inquadratura è ripresa sullo stesso asse della prima inquadratura, cioè mantenendo lo stesso angolo di ripresa e la stessa prospettiva, ma a distanza minore (raccordo sull’asse in avanti), o maggiore (raccordo sull’asse indietro), a seconda dell’effetto che si desidera ottenere rispetto al soggetto in campo.
Viene frequentemente utilizzato per aumentare l’attenzione dello spettatore sul soggetto in campo, oppure per dare una visione più ampia del contesto in cui l’azione sta avvenendo, evitando di “distrarre” lo spettatore mutandone il punto di vista con una variazione d’angolo di ripresa inopportuna.

Raccordo sul movimento: è un'altra transizione molto diffusa, in cui un movimento iniziato nell’inquadratura precedente, dopo uno stacco, si conclude nell’inquadratura successiva, mantenendo il giusto continuum e le giuste proporzioni grafiche all’interno del piano di ripresa e “nascondendo” la meccanicità della narrazione.

Raccordo di sguardo: è, probabilmente, il più tipico e il più diffuso dei raccordi classici; consiste nel mostrare un personaggio che guarda qualcosa (o qualcuno) e, dopo lo stacco, mostrare immediatamente l’oggetto, o la persona, guardata dal personaggio nell’inquadratura precedente, nella posizione suggerita dall’inquadratura precedente.
Per esempio, se il personaggio X nell’inquadratura 1 sta osservando da un balcone qualcuno (o qualcosa) che in quel momento si trova fuori campo, nell’inquadratura successiva 2 (dopo lo stacco), il personaggio Y (o la cosa Y) sarà mostrato con una ripresa dall’alto; cioè dalla posizione che, a giudicare dalla inquadratura 1, possiamo attribuire al personaggio X.

Overlapping editing: letteralmente “montaggio sovrapposto”; l’overlapping editing è un particolare effetto di montaggio in cui la parte finale di un’azione, già mostrata nell’inquadratura immediatamente precedente, viene nuovamente riproposta all’inizio dell’inquadratura successiva.
Generalmente viene utilizzato, sul piano della narrazione, con funzioni di estensione temporale.