The Last Tycoon (Gli ultimi fuochi) - 1976 - di Elia Kazan
La finzione e il suo doppio
Nei primi due incontri su questo blog mi sono occupato, prevalentemente, di movimenti di macchina, segmentazione
delle inquadrature e scala dei piani.
In quest'occasione proverò a fermare la vostra attenzione su uno degli elementi costitutivi dell'opera cinematografica, troppo spesso trascurato o non sufficientemente considerato: la sceneggiatura.
In quest'occasione proverò a fermare la vostra attenzione su uno degli elementi costitutivi dell'opera cinematografica, troppo spesso trascurato o non sufficientemente considerato: la sceneggiatura.
Se non avete mai visto
Gli ultimi fuochi di Elia Kazan, il film che ho scelto per questo terzo appuntamento, beh! ... Cercate di farlo al più presto!
E' uno di quei film che merita più di uno sguardo superficiale ... per più di un buon motivo: primo fra tutti, l'eccellente sceneggiatura di Harold Pinter, tratta dal romanzo The Last Tycoon di Francis Scott Fitzgerald; sceneggiatura sublimata dal fascino visivo dell'obiettivo analitico di Kazan; e per la presenza di un intenso Robert De Niro, all'interno di uno straordinario cast di superstar.
E' uno di quei film che merita più di uno sguardo superficiale ... per più di un buon motivo: primo fra tutti, l'eccellente sceneggiatura di Harold Pinter, tratta dal romanzo The Last Tycoon di Francis Scott Fitzgerald; sceneggiatura sublimata dal fascino visivo dell'obiettivo analitico di Kazan; e per la presenza di un intenso Robert De Niro, all'interno di uno straordinario cast di superstar.
Il film appartiene a quel filone hollywoodiano che è
passato nella letteratura critica come "film on film" o, più
precisamente nel caso di specie, "Hollywood on Hollywood", che ha tradizionalmente
riscosso un buon successo di pubblico, non sempre suffragato, però, dal
consenso della critica specializzata più "raffinata".
The Last Tycoon, pur presentando moltissimi degli elementi
tipici di questo sottogenere un po' ruffiano e talvolta ambiguamente
autocelebrativo, riesce a filtrare i codici di genere attraverso uno
stile di ripresa ricco e affascinante, fondato su una capacità di affabulazione
davvero non comune, e a riscattare la qualità complessiva dell'opera, spingendo
fino alle estreme conseguenze le situazioni-cliché codificate dal
sistema classico di rappresentazione (pensiamo a film come Il bruto e la
bella di Vincente Minnelli, o a E' nata una stella di George Cukor,
o, ancora, a Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz).
Un esempio sfavillante di questo ipnotismo narrativo è dato dalla scena che ho scelto per Voi lettori di FATTI A PEZZI; scena in cui un illuminato produttore (Monroe Stahr/De
Niro) di una major hollywoodiana (la International World Films, nella
finzione) di-mostra a un presuntuoso letterato
(presumibilmente un romanziere), "aspirante sceneggiatore" (Boxley/Donald
Pleasence), la sostanziale differenza tra scrittura cinematografica e scrittura
letteraria, la profonda differenza, cioè, tra pensare per immagini e
pensare per concetti.
Il tratto distintivo della sceneggiatura di Pinter sta
nell'assumere come motore di tutta la narrazione il gioco dialettico vero/falso,
vita reale/cinema; gioco che trova la sua forma più compiuta
nella scena in esame.
La centralità di questa scena nel contesto dell'impianto
narrativo dell'opera è ribadita nel pre-finale del film, in cui viene
riproposta, in modo sostanzialmente identico, con l'importante variazione che,
in questo secondo caso, è rivissuta, in una sorta di monologo onirico, dal solo
Monroe Stahr.
L'incontro produttore-sceneggiatore, girato
secondo i canoni dell'estetica classica campo/controcampo, ma con un'incredibile serie di variazioni di angolazione e di inquadrature che sfruttano l'intera scala dei piani, in
realtà affronta con spirito assolutamente anticlassico la fondamentale
questione del rapporto tra rappresentazione e narrazione, tra narrazione
cinematografica e narrazione letteraria e, su un piano più alto e definitivo,
tra fiction e realtà.
La dinamica del gioco è immediatamente
esplicitata, la situazione è assolutamente ideal-tipica: interno di
un ufficio dirigenziale di una major hollywoodiana; s'incontrano un
produttore, due sceneggiatori professionisti dipendenti degli Studios (e quindi collaboratori diretti e abituali del produttore) e un romanziere ingaggiato ad hoc per collaborare con loro alla
riscrittura di una sceneggiatura che incontra qualche difficoltà nel decollare.
Questo il background che la scena suggerisce e presuppone.
Questo il background che la scena suggerisce e presuppone.
Il romanziere ha chiesto un colloquio con il
produttore per lamentarsi dell'apporto scadente dei suoi due "impiegati" e
cerca di difendere animatamente i propri contributi allo script che,
invece, il produttore stesso dimostra subito di ritenere del tutto inadeguati.
Fin dal primo livello di analisi si può cogliere un importante plus di valore nel tentativo di
focalizzare subito l'attenzione su ciò che sarà il nucleo tematico
dell'episodio: il momento creativo, il momento in cui l'idea, il concetto,
diventa forma visiva capace di svolgere una funzione mediatica tra realtà e finzione
artistica.
Lo svelamento del mistero della creazione trova la sua piena dimensione nella seconda fase della scena, che vede
assoluto protagonista il produttore che da un saggio di ciò che
significa "fare cinema”.
Pinter e Kazan eliminano qualsiasi equivoco, non c'è
spazio per elaborazioni intellettualistiche, non c'è spazio per enunciati
teorici; l'unica risposta possibile è la mise en scène.
Il produttore non spiega cosa sia il
cinema ma mostra, e non potrebbe essere altrimenti, il cinema.
Lo mostra attraverso le sue dinamiche di
rappresentazione fondate sull'ambiguità dei ruoli, sulla molteplicità dei punti
di visione, sui percorsi incrociati degli sguardi, sugli effetti e sull'attesa
della sorpresa, sull'inutile che si trasforma nell'indispensabile; soprattutto
sulla sua struttura essenziale di doppio della realtà o realtà doppia;
ma la doppiezza è ancora ambiguità, e ci muoviamo sempre nel cono d'ombra della
finzione.
Un doppio falso, infedele, artefatto come solo
il set sa e può essere; ma pur sempre un doppio nel quale, come
in uno specchio deformante, si possono cogliere dei punti di contatto con la
realtà: ecco enucleata la vera essenza della fiction.
Ad un secondo livello di analisi si riscontra un
secondo grado di finzione, o più precisamente, un raddoppiamento della
finzione stessa; così, sulla natura del set come doppio della realtà,
s'innesta la duplicazione del "gioco degli specchi": il cinema che
parla di se stesso, lo specchio davanti allo specchio, in un vortice di rimandi
e di sguardi deformati e deformanti.
Ma se il cinema è costitutivamente fiction, la
menzogna è costitutivamente cinema, e il cinema che parla di sé non può che
mentire due volte.
La duplicazione della finzione costituisce dunque la
struttura de Gli ultimi fuochi, struttura compendiata in poco più
di quattro, memorabili, minuti che trovano il loro degno epilogo con lo stacco,
a tutto schermo, sul logo della International World Films che aumenta,
se possibile, il grado di finzione della scena connotandola,
ulteriormente, come “film in film”.
A questo punto è il caso di aggiungere un'altra
notazione, più sottile, sulla natura replicante del rapporto tra la
sceneggiatura di Pinter (primo stadio della finzione-cinema) e il romanzo di
Fitzgerald che è già di per sé un raddoppiamento della realtà e quindi finzione.
Siamo alla ripetizione ossessiva, e forse delirante del sovrapporsi dei vari livelli di falsificazione della realtà offerti dalla scena, che presenta una molteplice
stratificazione: finzione (simulazione del produttore), della
finzione (il film stesso), della finzione (il romanzo di
Fitzgerald), di una realtà, il mondo degli Studios
hollywoodiani, che in sé era (è?) una sorta di realtà virtuale in cui finzione
e dissimulazione costituivano (costituiscono?) la pratica più diffusa, se non
la cifra esistenziale.
Monroe Stahr, il "creatore di menzogne", che nel finale del film s'immerge nell'oscurità di un teatro di posa, rappresenta simbolicamente proprio quest'incapacità di rinunciare al sogno della finzione e al mistero perverso della menzogna scenica.
Monroe Stahr, il "creatore di menzogne", che nel finale del film s'immerge nell'oscurità di un teatro di posa, rappresenta simbolicamente proprio quest'incapacità di rinunciare al sogno della finzione e al mistero perverso della menzogna scenica.
E' quest'ultimo livello di finzione che intreccia vita
e sogno, forse, che non è stato completamente recepito e sviluppato del
discorso di Kazan, oggi forse non più originalissimo ma pur sempre frequentato, con minore sensibilità e con minore sincerità, se non,
addirittura, con facile opportunismo. Ed è su questo versante che Kazan/Autore affonda
il bisturi nelle convenzioni, nei cerimoniali, nei percorsi rituali e
autocelebrativi dell'Hollywood System, coinvolgendo lo Spettatore nella
costruzione della falsificazione e al tempo stesso rendendolo incapace di
rinunciarvi: Monroe Stahr siamo noi.
Il Video
Il Video
Piccolo Dizionario Tecnico
Campo: spazio
delle immagini determinato dall'inquadratura, s'identifica con il
cosiddetto piano di ripresa, ed è convenzionalmente riferito alla
figura umana sullo schermo.
Si va dal campo
lunghissimo (cll) che comprende l'orizzonte ed è il più ampio, al primissimo
piano (ppp) che comprende solo il volto umano, e al particolare,
ancora più ristretto (una mano, gli occhi, etc.).
Controcampo: inquadratura
effettuata da un punto di vista totalmente opposto a quello immediatamente
precedente; provoca un "salto visivo" rispetto al campo.
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