sabato 24 marzo 2012

Tilai (il ritorno di Saga)


Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire


Tilaï - 1990 - di Idrissa Ouedraogo

Tilaï: l'amore negato

Tilaï (La Legge, 1990), di Idrissa Ouedraogo, costituisce un raro esempio di circolazione, seppure limitata a pochi eletti circuiti, di film prodotti in Paesi che vivono ai margini della grande industria culturale hollywoodiana ed europea e che riescono ad essere distribuiti grazie ad interventi come l’EFDO, programma M.E.D.I.A. dell'Unione Europea.
Il film di Ouedraogo è una co-produzione Burkina Faso/Svizzera/Francia, è completamente ambientato nel vecchio Alto Volta, oggi Burkina Faso, nei villaggi di Koumbri e Komsilga, e rappresenta uno dei migliori progetti realizzati grazie al sostegno finanziario di diversi enti europei, in particolare francesi (“Gran Premio della Giuria” a Cannes nel 1990).
Il film di Ouedraogo, all’epoca trentaseienne, con già sette titoli all’attivo, tra cui l’eccellente Yaaba (1989), affronta un tema classico della letteratura e della cinematografia mondiale: “l’amore negato”; ma lo fa in modo politico e antropologico, toccando quelle corde di universalità che raramente, anche i più grandi, riescono a sfiorare.
Tilaï risulta tutto giocato su una doppia contrapposizione dialettica sviluppata, contemporaneamente, all’interno del registro estetico-formale e all’interno del registro della narrazione, della affabulazione.
Sotto l’aspetto della visione e della regia, sempre molto lucida e misurata, il film si muove tra i grandi spazi desertici che avvolgono i pochi e poveri villaggi disseminati qua e là, e gli spazi chiusi, angusti, determinati dai recinti all’interno dei villaggi stessi.
Sotto l’aspetto dei contenuti, il processo narrativo si dipana attraverso la fenomenologia del conflitto tra le infinite possibilità e libertà offerte dallo spazio aperto e le barriere culturali imposte dalle convenzioni e dalle regole del vivere in comunità, dalla famiglia stessa, all’interno dello spazio fisico del villaggio.
L’essenza del conflitto amoroso ha regole precise, tanto in Burkina Faso quanto nell’Occidente industrializzato; che poi le difficoltà, gli impedimenti, le sofferenze, sorgano da leggi e questioni etiche, etologiche potremmo dire, molto differenti, rappresenta solo il "tratto culturale" della grande battaglia che l'uomo conduce sulla terra.
Ciò che più conta, per Ouedraogo, è la ritualità del conflitto tra dimensione sociale e dimensione individuale; conflitto che risiede sempre sui medesimi stati dell’anima, sulla profondità e l’esplosività dei sentimenti che torcono le viscere e sull'indifferenza della Legge.
L’ordine costituito, la comunità del villaggio, impone vincoli e costrizioni, non risparmia neppure torture, “suicidi d’onore” pubblici e omicidi punitivi: l’amore possibile del villaggio esclude completamente l’amore impossibile dei veri amanti.
Le dissoluzioni delle famiglie e dei legami di sangue vengono decretate da un ferreo codice d’onore che soggioga qualsiasi affetto ed esclude qualsiasi ripensamento.
La macchina da presa (mdp) asseconda con sobrietà questo contrasto tematico, muovendosi con molta fluidità e discrezione tra gli spazi aperti che circondano il villaggio, teatro principale della vicenda, e lo spazio chiuso del villaggio stesso, con l’atmosfera simbolicamente asfittica che si respira a ridosso delle sue capanne.
Il luogo-chiave del film è costituito da quella zona franca tra deserto e villaggio rappresentata dallo spazio intermedio situato tra il perimetro del villaggio stesso e lo spazio aperto e indifferente del deserto circostante.
In questa sorta di limbo si svolgono le due scene fondamentali del film: il finale tragico in cui si compie il “delitto d’onore” richiesto dalle regole della comunità; l’incontro-scontro che dà inizio alla vicenda drammatica, con l’arrivo di Saga/Rasmane Ouedraogo che torna, dopo due anni di assenza, a sconvolgere le tranquille regole della comunità, rivendicando il diritto di sposare Nogma/Ina Cisse, andata nel frattempo in sposa al padre di Saga stesso.
E’ appunto in questa scena iniziale che si manifesta subito la disposizione “strategica” delle due parti in conflitto: l’elemento di disturbo, anarchico e dissolutore, che rivendica i diritti della passione e del sentimento e l’intera comunità, schierata sulle posizioni consolidate dalla tradizione.
Questa “guerra dei mondi” si configura come uno scontro tutto risolto all’interno dello stesso nucleo familiare; il primo a fronteggiare Saga e a rivelargli lo stato delle cose è Kougri/Assane Ouedraogo, il fratello di Saga.
Kougri che pure affettivamente è solidale con Saga, assume il compito di portavoce della comunità e della legge.
Il confronto tra i due fratelli è rapidissimo, secco; occorrono pochissime parole per chiarire situazione e ruoli.
Ouedraogo isola subito le due figure principali della scena, Saga che suona il corno per annunciare il suo arrivo, Kougri che esce dalla capanna e si rivolge a Nogma per tranquillizzarla.
Segue un campo lunghissimo, ripreso dalla semisoggettiva di Saga, del villaggio che si anima, simile a un formicaio; lentamente la macchia bianca di Kougri si stacca dal resto del gruppo e avanza verso Saga che a sua volta si muove per andargli incontro.
I due stacchi successivi ci propongono prima Saga che scende dalla collinetta e poi Kougri che avanza a grandi passi nella pianura fino a raggiungere Saga in un faccia a faccia in primo piano.
Altri due stacchi rapidi e incisivi ci mostrano gli altri protagonisti della storia, incorniciandoli, per coppie, in due brevissime inquadrature: la prima coppia è costituita dal padre di Saga che trattiene Nogma, la seconda coppia dalla sorella minore di Nogma e dalla madre.
Con un ulteriore stacco si torna su Saga e Kougri che stanno discutendo; la mdp si limita ad inquadrare lo spazio, la porzione di spazio in cui i personaggi si muovono animando l’inquadratura.
La discussione si esaurisce velocemente e mentre Saga, sentendosi tradito, volta le spalle a Kougri e si allontana verso la collinetta, nell’inquadratura successiva il capo villaggio si avvicina a Kougri e quando i due si voltano e tornano verso il centro del villaggio, lo sguardo di Ouedarogo torna ancora da Saga che, solo, si sta a sua volata allontanando fino a diventare un figura appena percettibile, in campo lunghissimo, nello spazio aperto e solitario del "fuori villaggio". 
La mdp rispecchia fedelmente l’estrema misura con cui Saga e Kougri si affrontano; non ci sono movimenti di macchina, la presentazione dello spazio del profilmico viene data attraverso un montaggio asciutto e perentorio, fatto di riprese fisse in cui sono i personaggi a muoversi dentro la cornice dell’inquadratura.
Personaggi i cui movimenti sembrano rispettare un preciso ordine gerarchico, ordine confermato dalle inquadrature di gruppo in cui si muovono solo i protagonisti della storia, circondati dall’immobilità generale.
Ouedraogo sembra voler insistere, con il suo stile netto e quasi antidrammatico, sul contrasto eternamente esistente tra la vitalità che anima i personaggi travolti dalla passione e che grazie a questa passione diventano portatori di istanze rivoluzionarie e liberatrici, e la fissità del gruppo, omogeneamente compatto, a rimorchio del carro delle convenzioni.
E' già tutto annunciato, sin dal titolo. Il conflitto tra legittimità e potere, tra diritto positivo e diritto del cuore ha scelto le sue vittime e il richiamo all'Antigone di Sofocle non sembri azzardato: ci sono conflitti che sono universali e attraversano l'animo umano appena "travestiti" da culture diverse. E' questo il messaggio più grande di Tilaï. 
Il Video 

Tilai (1990) di Idrissa Ouedraogo from Fatti a Pezzi on Vimeo.

Idrissa Ouedraogo
Piccolo Dizionario Tecnico

Campo lunghissimo: è un tipo di ripresa molto particolare, che serve ad esaltare la presenza del paesaggio; nel cll la figura umana è ridotta a semplice elemento nell’orizzonte più ampio del paesaggio.

Semisoggettiva: è un'inquadratura che, come la soggettiva, mostra il punto di vista del personaggio; ma sfruttando un'angolazione di ripresa lievemente differente, non ne rispecchia fedelmente la posizione dello sguardo; nella semisoggettiva entrano in campo anche la nuca e le spalle del personaggio.

Profilmico: si definisce “profilmico” tutto ciò che “entra nell’obiettivo” della mdp e che si trova “in campo”, appositamente per essere filmato; cioè tutti quegli elementi che compongono scientificamente l’ambiente di ripresa (oggetti, arredamenti, personaggi) e che rendono possibile la “messa in scena”.

sabato 17 marzo 2012

Amarcord (aspettando il REX)


Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire


Amarcord  - 1974 - di Federico Fellini

Aspettando la magia del Rex

Se il cinema è il luogo del sogno e il set è il luogo del cinema, sicuramente Federico Fellini è il poeta del set. Poesia che si dispiega in tutti i suoi film, da La Strada a La Voce della luna e che tocca uno dei suoi vertici assoluti nell'opera che, più di ogni altra, rappresenta la celebrazione sincera della memoria, dell'adolescenza e dell'ingenuità: Amarcord.
Amarcord è costruito come un'antologia di episodi di vita provinciale, ambientati in una Rimini anni '30 rigorosamente finta e interamente ricostruita a Cinecittà.
Da questo mosaico di episodi scaturisce una galleria di "quadri" che a volte si esauriscono nella dimensione del semplice bozzetto pittoresco, a volte, invece, possiedono il respiro pieno dell'affresco, potente e suggestivo, riuscendo sempre a raccontare con sincerità la vita quotidiana e meno quotidiana di una piccola città della provincia italiana (il Borgo nel film, Rimini nella realtà presa a modello) con tutte le situazioni tipiche e macchiettistiche, il tessuto culturale e i "personaggi" del luogo, immersi in una dimensione di ordinario grigiore e di umanissimo calore, di desideri irrealizzati, di accettazione serena, ma non rassegnata, della vita. 
Uno di questi "affreschi", probabilmente il più riuscito, sicuramente il più famoso, è costituito dalla sequenza del Rex.
La sequenza del Rex racconta l'episodio del passaggio del transatlantico "Rex" proveniente dall'America, addirittura «la più grande realizzazione navale del regime», a largo delle acque del Borgo; passaggio annunciato dalla propaganda fascista e atteso con grande trepidazione dalla popolazione della piccola città di provincia, strappata per un giorno alla mediocrità quotidiana e chiamata all'appuntamento con la "storia".
La sequenza, che ha una durata complessiva di 6'46", è suddivisa in tre sequenze interne ed è prodigiosamente concepita come un piccolo film dentro al film: la prima sequenza, che potremmo intitolare "la partenza", costituisce il prologo dell'episodio e descrive l'attesa e il fermento che animano Il Borgo la mattina del giorno fatidico.
Con il talento visionario che lo ha sempre contraddistinto e con l'uso di un montaggio che si fa ad ogni sequenza più serrato, in un crescendo di tensione drammatica, Fellini opera una scelta formale che si dimostra in perfetta sintonia con il sentimento e lo stato d'animo di trepida attesa e fervida agitazione che percorrono le strade del Borgo.
La macchina da presa (mdp) è in costante movimento, un movimento così fluido e naturale da risultare quasi impercettibile; come volesse tradurne fisicamente lo stato di euforia, "aderisce" ai personaggi, li accompagna, via via che animano il set, lungo il percorso che li condurrà al punto in cui passerà il Rex (8 km. al largo), seguendoli o precedendoli con lunghi e lenti carrelli in campo medio o in piano americano.
La sequenza presenta 15 stacchi in poco più di due minuti; utilizzando carrellate laterali, carrellate in avanti e carrellate oblique; effettuando movimenti di macchina, alternativamente, da destra verso sinistra e viceversa. 
Fellini affida a questo girovagare, sapientemente confuso, della mdp, il compito di avvicinare lentamente lo spettatore al momento culminante, conducendolo verso la spiaggia; dispensando, sapientemente, quei tocchi di colore e di calore che ne fanno un vero "poeta di immagini", incline anche a qualche dotta citazione (per es. la scelta, ripetuta, di far parlare in macchina i suoi attori, rivolti direttamente al pubblico, artificio molto caro a Ernst Lubitsch, padre della sophisticated comedy).
Il prologo si chiude con due stacchi netti sull'inquadratura in campo medio del personaggio soprannominato "La Volpina", che dalla spiaggia guarda gli altri partire, e sull'inquadratura in campo totale della piazza del Borgo, deserta (con la sola presenza di un cane randagio).
Completamente diversa la costruzione della seconda sequenza, molto breve ma estremamente significativa, che potremmo intitolare "il viaggio".
Infatti, strutturata con un montaggio più serrato (8 stacchi in meno di un minuto), la sequenza si affida a riprese effettuate sopra le imbarcazioni dirette verso l'appuntamento col Rex, con la mdp ferma sui personaggi, rivelando un'attenzione maggiore nella presentazione delle facce e dei singoli caratteri. Il finale di questa seconda sequenza, girato con una luce crepuscolare, introduce l'atmosfera di festa popolare, d'incanto e di magia che costituiscono l'essenza della sequenza successiva: il momento del passaggio del Rex.
Sicuramente una funzione molto importante nella costruzione della magia dell'episodio del Rex, è svolta dall'uso dell'illuminazione che segue una anticlimax, simmetrica rispetto all'uso dei movimenti di macchina, passando dalla luce diffusa della prima sequenza che determina una rappresentazione omogenea dello spazio con i personaggi avvolti morbidamente dalla luce del giorno, alla luce dinamica e semicontrastata del crepuscolo della seconda sequenza, che mette in risalto anche l'effervescenza degli stati d'animo; per giungere, infine, alla luce diretta e molto contrastata del notturno della terza sequenza, in cui volti e ambienti vengono scolpiti da controluce molto netti e da una luce laterale (fill light) molto decisa che mette in risalto le sfumature chiaroscurali delle emozioni. 
Un contributo decisivo, in termini di costruzione dell'atmosfera, lo fornisce la fantastica musica di Nino Rota che fa da contrappunto fedele, con le sue variazioni sul tema, alle "variazioni di tono" della sequenza.
Il Rex: la terza sequenza interna, che conclude il segmento in esame, è la più lunga delle tre (poco meno di quattro minuti); è montata con 21 stacchi e 2 dissolvenze ed è divisa in tanti "quadretti" di presentazione dei vari gruppi di personaggi in attesa del passaggio del Rex.
Qui lo sguardo della mdp si fa più intenso, alla ricerca del viso e delle espressioni più nascoste; ne conseguono un utilizzo molto ristretto della scala dei piani, di cui si privilegiano mezzi primi piani e primi piani, e una progressiva riduzione dei movimenti di macchina.
L'architettura narrativa del passaggio del Rex è concepita con estremo rigore formale: dopo il primo "quadretto" di presentazione (con il personaggio di Biscèin protagonista) che contiene il primo stacco, una dissolvenza incrociata sposta l'attenzione dello spettatore sulla famiglia di Titta Benzi, un po' il nucleo protagonista di tutto il film; segue una serie di tre passaggi principali per stacco su altri gruppetti, con la focalizzazione sul gruppo di cui fa parte Ninola, detta Gradisca (altro personaggio chiave del film); da qui si torna sul gruppo familiare di Titta, chiudendo così un percorso circolare che rappresenta il preludio al trasparire maestoso, fra le nebbie della notte, del mitico Rex che, cinque inquadrature dopo, annunciato da una potente sirena che squarcia il silenzio, invade completamente lo schermo, salutato dalla folla sognante e commossa.
A questo punto, la sequenza trova il suo finale puntuale nella dissolvenza incrociata "di richiamo" che ci trasporta dall'immagine del transatlantico che si allontana, al sussulto del mare che spazza via i sogni con un'ondata.
L'esito felicissimo della sequenza si sostiene su un miracoloso impianto scenografico, allestito nello Studio 5 di Cinecittà, dominato da un transatlantico che più "realisticamente finto" non si potrebbe immaginare.
"Realisticamente finto": definizione che è poi la cifra di tutto il cinema felliniano ma che mai, eccetto forse che in E la nave va, trova tanta forza immaginifica nel filtrare la menzogna della fiction attraverso la sincerità delle emozioni; menzogna che quanto più è dichiarata, in Fellini, tanto più produce illusione di realtà, grazie a una capacità guardare dove nessuno guarda mai e a una delicatezza di tocco che ne fanno un grande poeta visionario; la magia poetica del Rex nasce, dunque, dalla straordinaria abilità nel manipolare la "finzione" e trasformarla in "verità".
In conclusione, due notazioni sul versante dei codici della comunicazione: l'uso anticonvenzionale della dissolvenza che qui non ha compiti di sviluppo narrativo ma gioca esclusivamente sugli effetti emotivi d'atmosfera e la sottolineatura del personaggio del cieco che suona la fisarmonica, cui Fellini e il suo co-sceneggiatore Tonino Guerra fanno pronunciare una battuta chiave al momento del passaggio del Rex («Com'è?…. Com'è?… Com'è? ... Com'è?»), proprio come se gli attribuissero la funzione di trait d'union con il pubblico, e gli facessero chiedere l'approvazione alla riuscita della mise en scène.


  Il Video 



Federico Fellini

Piccolo Dizionario Tecnico
Campo medio: è un'inquadratura in cui la figura umana occupa circa un terzo dell'altezza dello spazio rappresentato.
Piano americano: è un'inquadratura in cui la figura umana è ripresa dalle ginocchia in su.
Parlare in macchina: il "parlare in macchina" si verifica quando l'attore pronuncia la propria battuta fissando l'obiettivo della macchina da presa, dando la sensazione di rivolgersi direttamente al pubblico; questo tipo d'inquadratura era assolutamente proibito nel cinema classico in cui era considerato un errore gravissimo e inaccettabile poiché distruggeva l'illusione di realtà che la scena si sforzava di ottenere, manifestando la consapevolezza, da parte del personaggio, della presenza della mdp e di un pubblico virtuale al di là dell'obiettivo.
Campo totale: è un tipo d'inquadratura in cui si definisce la rappresentazione per intero di un ambiente: di un interno o di un esterno circoscritto (per es. una piazza).
Illuminazione: sul set cinematografico l'illuminazione, che è un elemento fondamentale per la perfetta riuscita di una ripresa, può essere di due tipi principali, contrastata o diffusa.
L'illuminazione contrastata è ottenuta con l'uso di una sorgente di luce diretta che crea un forte contrasto fra zone d'ombra e zone di luce e viene utilizzata, prevalentemente, in situazioni di forte tensione drammatica; l'illuminazione diffusa prevede l'uso di molte sorgenti di luce d'intensità uniforme che forniscono una rappresentazione dello spazio molto omogenea e viene utilizzata, prevalentemente, in situazioni di maggiore distensione e "serenità".
Fill light: la fill light è una delle tre principali sorgenti di luce che si utilizzano, generalmente, sul set; la f.l. viene posta in posizione laterale rispetto a quella dei personaggi e serve a "scolpire" le figure, serve cioè a dare rilievo plastico e "dinamicità" all'immagine.
Dissolvenza: la dissolvenza si utilizza nel passaggio da un'inquadratura a quella successiva e può essere di tre tipi; d. d'apertura, quando l'immagine si materializza progressivamente sullo schermo vuoto; d. di chiusura, quando l'immagine scompare progressivamente fino a lasciare lo schermo vuoto; o dissolvenza incrociata, quando un'immagine si sovrappone per alcuni istanti all'immagine precedente occupandone progressivamente il posto sullo schermo. La dissolvenza, nel cinema classico, aveva la funzione narrativa convenzionale di unire, temporalmente e/o spazialmente, scene diverse.

sabato 10 marzo 2012

The Hitch-Hiker (in macchina con l'assassino)


Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire


The Hitch-Hiker (La belva dell'autostrada) - 1953 - di Ida Lupino

The Hitch-Hiker: dal buio alla luce

Cosa sarebbe il cinema senza la luce? Niente!
Cosa sarebbe il cinema “nero” senza la luce? Meno di niente!
Una prova al di là di ogni ragionevole dubbio?
The Hitch-Hiker (“La belva dell’autostrada”) di Ida Lupino, film USA del 1953.
Ma prima del buio ambiguo delle atmosfere noir, prima della luce esaltata dai grandi direttori della fotografia (che una volta, pur non meno grandi, si chiamavano più prosaicamente “capo-operatori”) è il caso di spendere due righe per Ida Lupino.
Chi è, chi fu, Ida Lupino?
I cinefili, gli appassionati del genere soprattutto, la ricorderanno senz’altro. 
Noi vogliamo ricordarla a tutti gli altri.
Ida Lupino, nata a Londra nel 1918, si afferma come attrice negli Stati Uniti negli anni '30 e '40, lavorando in moltissimi film, di differente qualità: da grandi classici di genere come High Sierra (“Una pallottola per Roy”, 1941) di Raoul Walsh, oppure The Big Knife (“Il grande coltello”, 1955) di Robert Aldrich, a film semisconosciuti.
Esordisce alla regia nel 1949 con Not Wanted (firmato da Elmer Clifton e conosciuto anche con un altro titolo: Shame) un film minore, per il quale però viene accreditata solo come autrice dello script (insieme con Paul Jarrico) e come produttore.
Il suo esordio ufficiale alla regia avviene l’anno dopo con ben due film, Outrage (“La preda della belva”, 1950) e Never Fear (1950), per approdare, dopo un altro film nel 1951, al suo capolavoro The Hitch-Hiker, appunto.
Lo stile e il linguaggio di Ida Lupino costituiscono una sorta di transizione tra il classicismo dei gangster-movie e dei noir del ventennio '30-'40, al cui filone pure aveva partecipato come attrice, -pensiamo a titoli come The Maltese Falcon (“Il mistero del falco”, 1941) film culto di John Huston, o a Double Indemnity (“La fiamma del peccato”, 1944) di Billy Wilder, o al Little Caesar (“Piccolo Cesare” 1939) di Mervin LeRoy, a The Public Enemy (“Nemico pubblico”, 1931) di William Wellman, al mitico Scarface, Shame of a Nation (“Scarface”, 1932) di Howard Hawks- e il new style che si affermerà nella seconda metà degli anni '50, più diretto, più attento allo svolgimento dell’azione e alle sue componenti spettacolari e, in una certa misura, meno sensibile alla creazione delle atmosfere.
Il cinema di Ida Lupino (purtroppo limitato a pochissimi titoli: 7 in tutto) è un cinema improntato a uno stile asciutto, spigoloso, che richiama il Naked City (“La città nuda”, 1948) di Jules Dassin (altro europeo trapiantato a Hollywood) o il bellissimo The Asphalt Jungle (“Giungla d’asfalto”, 1950) di John Huston.
Si tratta di uno stile programmaticamente minimalista, che però non vuole e non sa rinunciare al fascino del simbolismo, della metafora visiva, come dimostra anche il brevissimo frammento che analizzeremo.
E’ proprio nella regia che si dispiega il talento fascinoso di un personaggio legato, in gran parte, ai B-movie, alla produzione minore dello sfavillante (e siamo ancora a giocare con la luce!) cinema americano, ma dalla mano lucida e accattivante.
The Hitch-Hiker, l’abbozzo di capolavoro o, probabilmente, il “progetto di capolavoro” che Ida Lupino ha saputo regalarci, vertice della sua produzione registica, riunisce in sé i temi dominanti dell’estetica e della poetica noir.
Tralasciamo ora la poetica e i temi caratteristici del genere e tuffiamoci, invece, nella sua estetica ruvida e torrida, tenebrosa ma attraversata da intensi bagliori di luce.
La luce appunto, che anima e scolpisce l’estetica del cinema noir, che ne sottolinea le atmosfere, ne modella gli ambienti, ne scruta le pieghe più impercettibili, fin negli angoli più nascosti, nelle piccole rughe intorno agli occhi.
La luce dunque, la luce che ci fa conoscere Hammond Myers, minaccioso come il destino che incombe su Gil Bowen e Roy Collins, usciti per un tranquillo weekend di pesca.
E’ l’inizio dell’avventura a tre che Ida Lupino ci racconta in The Hitch-Hiker, una storia tra il buio e la luce, ai confini tra Stati Uniti e Messico, scritta a quattro mani con Collier Young, che ne firma anche la produzione.
Un frammento semplice, nel suo eccezionale vigore visivo, ed emblematico.
Nel semibuio dell’abitacolo di un’automobile Gilbert Bowen/Frank Lovejoy e Roy Collins/Edward O’Brien hanno appena caricato un autostoppista; poco prima di questa scena il film ci ha già raccontato, rapidamente, l’antefatto: ci sono stati alcuni omicidi per mano di un ignoto assassino della strada, che si fa caricare in macchina e poi uccide.
Il sospettato numero uno è tale Hammond Myers/William Talman, pericoloso evaso.
Ma torniamo all’interno della macchina.
Un’inquadratura frontale in classico primo piano ci mostra Gil e Roy; brevissimo scambio di battute e stacco improvviso sul particolare della mano dell’autostoppista (seduto sul sedile posteriore) che impugna, puntandocela in faccia, una grossa pistola a tamburo.
Seguono due velocissimi stacchi sui preoccupati primi piani di Gil e Roy e, infine, un terzo stacco che mette in moto uno zoom in avanti il cui effetto di avvicinamento viene esaltato dal movimento in avanti del personaggio.
Alla fine dei due movimenti (zoomata e movimento del personaggio) il buio fittissimo viene squarciato da un'intensa luce diretta, assolutamente non plausibile dal punto di vista diegetico, che fa emergere dall’oscurità il volto teso e minaccioso di Hammond Myers.
La luce "narrativa" che illumina la faccia di Myers, ci permette di fare il confronto con la foto che avevamo visto all’inizio del film, sulle prime pagine dei quotidiani.
Ida Lupino e il suo direttore della fotografia Nicholas Musuraca scelgono di illuminare il volto di Myers con la sola key light, rinunciando a scolpire ulteriormente i lineamenti, già contratti del personaggio, con l’utilizzazione della fill light di supporto; scelta che avrebbe rischiato di caricare eccessivamente l’espressione del personaggio, sconfinando in un’estetica horror.
Quel che occorre alla Lupino è una luce che crei un forte contrasto col buio circostante, ma che, contemporaneamente, non scavi troppo, con un eccesso di chiaroscuro, il volto in primissimo piano del personaggio.
Tutto sta nella misura: l’eccesso di drammatizzazione nuocerebbe all’atmosfera che la Lupino vuole creare. Mostrata la “belva” la macchina da presa zooma all’indietro, riportandoci ad una distanza di sicurezza dall’inquietante pistola di Myers.
Ora l’illuminazione cambia, e il contrasto fra le parti in luce e le parti in ombra della vettura si fa meno netto.
La climax della luce corre parallela alla climax della tensione drammatica.
Così come dal punto di vista delle carrellate ottiche (zoom avanti e zoom indietro) si oscilla fra un massimo e un minimo di tensione, il chiaroscuro nettissimo che segue allo zoom in avanti costituisce il puntuale contrappunto alla maggiore morbidezza dei contrasti e alla maggiore diffusione della luce che segue allo zoom indietro che ci riporta sul totale dell’interno vettura.
La tensione si allenta leggermente, tanto da consentire un uso dialettico della key light e della fill light che ora aiuta a vedere meglio la scena mettendo in luce tutti e tre i personaggi in campo.
Il brevissimo frammento (poco più di un minuto), appena analizzato (tratto da una scena che dura alcuni minuti e che nel video troverete in versione completa e preceduta, per una più chiara comprensione, dal prologo del film), non solo descrive perfettamente quella che sarà l’atmosfera complessiva dell'opera, condensandone compiutamente la cifra stilistica, ma rappresenta anche un passaggio esemplare di come, nel cinema, la luce racconti al di là dei dialoghi e dell’azione.


Il Video






Ida Lupino
Piccolo Dizionario Tecnico

Particolare: nella scala dei piani di ripresa costituisce l’inquadratura ravvicinatissima di una parte del corpo umano, una mano, gli occhi, un piede, ecc.; svolge sotto l’aspetto narrativo la funzione di “lente d’ingrandimento”.

Zoom o carrellata ottica: è una particolare figura del travelling cinematografico che è molto simile, negli effetti, alla classica carrellata sui binari, o al camera car effettuato con il dolly.
Nel caso della carrellata ottica la mdp resta ferma sul posto; è la lunghezza focale dell’obiettivo a variare, creando effetti di avvicinamento o di allontanamento rispetto ai personaggi e agli oggetti inquadrati; la sostanziale differenza estetica tra un carrello classico e una carrello ottico, consiste nel fatto che, mentre con il carrello classico (in cui la macchina da presa si muove nello spazio) si conserva una notevole profondità di campo e un certo volume dell’ambiente di ripresa, con il carrello ottico l’immagine tende ad appiattirsi e a perdere di profondità.

Key light: la key light è la principale sorgente d’illuminazione che si usa sul set cinematografico; determina l’illuminazione principale diretta e, interagendo con le altre sorgenti d’illuminazione, costruisce l’atmosfera dell’ambiente di ripresa.

Fill light: la fill light è una delle tre principali sorgenti di luce che si utilizzano, generalmente, sul set; la f.l. viene posta in posizione laterale rispetto a quella dei personaggi e serve a scolpire le figure, serve cioè a dare rilievo plastico e dinamicità all'immagine.

Illuminazione: sul set cinematografico l'illuminazione può essere di due tipi principali, contrastata o diffusa.
L'illuminazione contrastata è ottenuta con l'uso di una sorgente di luce diretta che crea un forte contrasto fra zone d'ombra e zone di luce e viene utilizzata, prevalentemente, in situazioni di forte tensione drammatica; l'illuminazione diffusa prevede l'uso di molte sorgenti di luce d'intensità uniforme che forniscono una rappresentazione dello spazio molto omogenea e viene utilizzata, prevalentemente, in situazioni di maggiore distensione e serenità.

Campo totale: è un tipo d'inquadratura in cui si definisce la rappresentazione per intero di un ambiente: di un interno (per es. l’abitacolo di un’automobile) o di un esterno circoscritto.

mercoledì 7 marzo 2012

Ciao Stan!


Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire


The Shining (Shining) - 1980 - di Stanley Kubrick


Stanley Kubrick, Danny e noi… nient’altro 

Stavolta un "fatto a pezzi" speciale o almeno diverso da quelli che avete già letto e che leggerete su questo blog. Anche qui brandelli, sì; molti, nitidi e dolorosi, tratti da un mio vecchio pezzo cominciato, di getto, nella notte tra il 7 e l'8 marzo 1999 e riadattato per questa occasione: il tredicesimo compleanno della sua morte.

... Oggi, 7 marzo 1999, è morto Stanley Kubrick, uno dei più grandi e geniali artisti del ‘900.

E questo non potrà essere un pezzo “normale"; sarà piuttosto una lunga confessione in diretta.

Comincio a scrivere sull’onda dell’emozione del momento. Mi rendo subito conto che i risultati saranno probabilmente sorprendenti anche per me, comunque molto diversi dal solito. Tutto sarà più frammentario, più incerto, più confuso; meno lucido e controllato, certamente più faticoso e doloroso, nella lettera e nello spirito.

E’ domenica; sono reduce dalla diretta del GP di Melbourne che ha aperto la stagione ’99 della Formula 1.
Il sonno accumulato durante la notte e lo stato di ebbrezza (non dovuto esclusivamente alla vittoria della Rossa) condiviso con Ciccopeppe, Massimo e Giancarlo, mi ha portato a dormire tutta la mattina. Ho saltato tutti i telegiornali dell’ora di pranzo, ho passato il pomeriggio traguardando distrattamente (la Juve gioca in notturna) Quelli che il calcio (non si fa cenno alcuno alla morte di Stanley. O, se se ne fa, io non me ne accorgo).
Esco alle 19, non ho ancora ascoltato nessun notiziario, non ho sentito al telefono nessun amico… ho un appuntamento alle 20.00 per andare al cinema; dovrei vedere Paura e delirio a Las Vegas (l’ultimo di Terry Gilliam). Dovrei, perché il film non è più in programmazione, lo scoprirò solo una volta arrivato davanti alla sala… non c’è Cinema, o ce n’è molto meno, senza Kubrick.
Dalla radio della macchina arriva la notizia, fulminea e stordente, apparentemente la mia reazione è solo di stupore, non rispondo neppure allo stimolo di chi pronuncia qualche apprezzamento su Kubrick. Da quel momento faccio un’enorme fatica a non pensarCI. Comincia a nascere questo pezzo.
Sono finalmente a casa, da solo, sono le 23.50… il 7 marzo sta per finire… QUALCOSA, intanto è già finita, per sempre.
Mi siedo davanti al televisore acceso, prendo il blocco dei miei appunti e scrivo, di getto, ciò che avete appena letto. Ora dovrei cominciare a scrivere il pezzo, mezzanotte è ormai passata, è già lunedì 8 marzo. SK è già cronaca, la cronaca è già storia e la penna si blocca.
Cosa scegliere di SK? Cosa sceglierebbe lui? Cosa potrebbe rappresentarlo meglio? Probabilmente lui non vorrebbe essere rappresentato  affatto. Non lo so.
Sono stanco, il sonno torna a farsi sentire. Stanley Kubrick è morto. il suo ultimo film, Eyes Wide Shut, uscirà nelle sale senza di lui, senza il SUO CONTROLLO, il 16 luglio 1999.
Domani, il pezzo lo scriverò domani.

Oggi è domani. Spero solo di non dover leggere i soliti insopportabili, glaciali coccodrilli che posso solo privarmi di quella necessaria privatezza, quasi segretezza, nel rapporto con un artista che ho amato moltissimo (ma questa è un’altra storia). 
Ho “fatto a pezzi” mille volte la filmografia di SK, ancora non so scegliere. 
Continuano a venirmi incontro, alla rinfusa, immagini dei suoi film. Vedo un balletto folle, dissennato; quattro “gentili” ragazzotti inglesi, in tuta bianca e bombetta scura che pestano a sangue un barbone; vedo uno scimmione che lancia in orbita un osso, al suono dello Zarathustra di Richard Strauss; vedo un militare cavalcare una bomba sganciata da un aereo, come Buffalo Bill cavalcava nei rodei; vedo un uomo di mezza età che, estasiato, dipinge le unghie dei piedi di una ninfetta capricciosa; vedo Kirk Douglas guidare la rivolta degli schiavi contro Roma padrona; vedo gli occhi brillanti di follia di Jack Nicholson, e le sue mani sulla tastiera (come adesso le mie) pestare furiosamente sugli stessi tasti, per scrivere, ostinatamente, le stesse parole: il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca*… ma questo ne ha un po’ meno.
Vedo una distesa verde, immensa, una strada che ci si attorciglia intorno, bella e solare, ripresa con uno straordinario travelling aereo; vedo una trincea traboccante di fango e di uomini disperati, cannoneggiata dal fuoco nemico, dove la polvere brucia gli occhi, intasa la gola e frena i carrelli.
Vedo un giovane marine con il cranio spappolato da una pallottola blindata, seduto su un cesso di caserma, sento Mickey Mouse cantata dai compagni di quel ragazzo ammazzatosi sul cesso, che hanno appena crivellato di colpi una giovane cecchina vietnamita; vedo la luce tremolante delle candele di casa Lyndon, esaltata dalla perfezione delle lenti Zeiss.
Vedo un ragazzino biondo, forse troppo curioso, aggirarsi, pedalando sul suo triciclo, tra gli infiniti corridoi di un hotel di montagna.
Mi torna in mente, con una certa impressione, la mia definizione del labirinto di Shining, di “figura luttuosa” e di “luogo che con-figura la morte”.
Ecco, il labirinto come struttura-simbolo della mente e della condizione umana; come struttura del Cinema; come il castello in Inghilterra in cui ha vissuto per più di vent’anni SK.
Un castello che forse ha qualcosa dell’Overlook Hotel, forse qualcosa dell’astronave di David Bowman e Frank Poole o qualcosa dello zigzagante e zoppicante percorso di Barry Lyndon.
Ma c’è ancora quella scena che non riesco a cancellare, forse perché è sempre stata una delle mie preferite, e anche una di quelle che più insidiosamente m’impressionarono alla prima visione di Shining o forse, anche, per il fatto di averne appena rivisto un frammento, in un tg di qualche ora fa.

Riviviamola insieme, in tre atti.

I ATTO
Siamo alle spalle di Danny, lo seguiamo a brevissima distanza mentre si aggira sul triciclo, per i corridoi dell’hotel; curva dopo curva, angolo dopo angolo. In qualche modo siamo attaccati a quel triciclo, ne siamo trainati.
La steadycam, sicura e fluida, segue Danny in semisoggettiva, noi, davanti alle immagini, siamo Danny e siamo gli angeli custodi di Danny.

II ATTO
La semisoggettiva ci dà questa duplice veste, ci consente una forte identificazione con Danny e, contemporaneamente, ci consente un minimo distacco; quel distacco, paradossalmente, molto più che una semplice coincidenza di visione, amplifica la tensione emotiva. Noi siamo Danny e siamo il Pubblico, vediamo con i suoi occhi, le stesse cose che può vedere lui; ma gli guardiamo anche le spalle, ne percepiamo distintamente la vulnerabilità e la condizione di estremo pericolo.
Tutto questo si fa chiarissimo quando Danny si ferma davanti alla “stanza 237”.
Ora Danny diventa parte dell’ambiente di ripresa, lui non è più noi, noi non siamo più lui, il rapporto fra spectatore e spectato diventa trasparente, così quando Danny riparte con il suo triciclo, ci lascia a terra, noi rimaniamo fermi lì, lo vediamo allontanarsi e ci limitiamo a guardarlo a distanza.
E se non ci fossimo noi alle sue spalle? Se non ci fossimo solo noi alle sue spalle? 
Se addirittura qualcuno-qualcosa fosse anche alle nostre spalle?
La tentazione di voltarsi indietro è forte. L’ansia prima, poi l’angoscia, comincia a fluire nelle vene, sale alle tempie: il pericolo è lì; è qui con noi.

III ATTO
Questo processo oscillante tra identificazione ed estraniazione si manifesta, con evidenza ancora maggiore, più avanti, in un terzo, fantastico, definitivo travelling.
Ora Danny è in campo medio, corre davanti al nostro sguardo che non riesce più a seguirlo. Danny ha già voltato l’angolo, noi non siamo più dietro a lui, stiamo fissando la fine del corridoio, vuoto. Danny ora è davvero solo, non lo possiamo più proteggere, neanche con lo sguardo; il fuori campo sovrasta il campo, l’angoscia è palpabile ma invisibile per definizione.

E’ incredibile, sto per finire questa esperienza; è lunedì sera, 8 marzo, l’orologio segna l’una e otto minuti, abbiamo sconfinato nel 9 marzo.
Cambio canale, in TV (RAIUNO) c’è Shining, c’è il labirinto innevato. Il cerchio si chiude, Danny sta correndo, inseguito da Jack, delirante di follia, armato di ascia.
Quel pericolo prima percepito è qui; la perdita del controllo, la perdita del “giusto punto di vista”, la perdita dell’orientamento hanno il sopravvento.

Non poteva che finire così. La corsa nel labirinto è finita, lo zoom su un sorridente Jack Nicholson, appeso ad una parete del salone dell’Overlook Hotel, sembra riconciliarci con il mondo, sembra.  

Quando voi starete leggendo questo strano flusso di pensieri, sarà tutto più raggelato, più distante; proprio come sarebbe piaciuto a SK. Ma, forse, sarà anche meno intensa e sincera l'emozione che lo ha generato. L’applauso che si sente (e che io ora sto ascoltando) in lontananza, sui titoli di coda di Shining, sarà definitivamente spento.
Ciao Stan
(Scritto tra il 7 e l'8 marzo 1999) 

* (t.l. dall’inglese all work and no play make Jack a dull boy – troppo lavoro e nessuno svago rendono Jack un ragazzo ottuso –; per una volta, il libero adattamento della versione italiana risulta più aderente allo spirito e all’atmosfera del film).


Il Video




Stanley Kubrick

Piccolo Dizionario Tecnico

Steadycam (steady camera): lett. “macchina salda, fissa”; si tratta di una particolare macchina da presa, che viene allacciata al tronco dell’operatore; la mdp, in questo modo, è sostenuta da una speciale imbracatura costituita di ammortizzatori che consentono all’operatore la più ampia libertà di movimento senza che l’inquadratura ne risenta minimamente, in termini di oscillazione e precisione. Inoltre con la steadycam l’operatore non è più costretto a guardare nel mirino della mdp ma può controllare l’inquadratura grazie ad un piccolo monitor che gli consente una totale libertà di esecuzione.
Molto ampio l’uso della steadycam per le riprese più spettacolari, in particolare degli action movie.

Semisoggettiva: è un'inquadratura che, come la soggettiva, mostra il punto di vista del personaggio ma, sfruttando un'angolazione di ripresa lievemente differente, non ne rispecchia fedelmente la posizione dello sguardo; nella semisoggettiva entrano in campo anche la nuca e le spalle del personaggio.

Travelling: è l'insieme dei complessi movimenti di macchina effettuati per mezzo di un veicolo con pneumatici (dolly), di una gru, di un braccio meccanico cui viene fissata direttamente la mdp (louma), della steadycam, o addirittura di un elicottero o un aeroplano; tali mezzi particolari offrono il grande vantaggio della possibilità di effettuare spostamenti sia orizzontali sia verticali .

Zoom (o carrellata ottica): in questo tipo di ripresa la mdp rimane immobile, ciò che varia è la lunghezza focale dell’obiettivo che può avvicinarci (zoom in avanti) o allontanarci (zoom indietro) dall’oggetto o dal personaggio inquadrato; l’unica sostanziale differenza tra un carrello tradizionale e uno zoom in avanti consiste nel fatto che mentre con un carrello “di macchina” la ripresa acquista profondità e l’ambiente di ripresa conserva il suo volume prospettico, con lo zoom l’immagine tende a “schiacciarsi” e l’effetto che si ottiene è quello di un evidente avvicinamento tra lo sfondo e gli oggetti che ci separano dallo sfondo stesso.

lunedì 5 marzo 2012

The Last Tycoon (sceneggiatori contro)

Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire


The Last Tycoon (Gli ultimi fuochi) - 1976 - di Elia Kazan


La finzione e il suo doppio

Nei primi due incontri su questo blog mi sono occupato, prevalentemente, di movimenti di macchina, segmentazione delle inquadrature e scala dei piani.
In quest'occasione proverò a fermare la vostra attenzione su uno degli elementi costitutivi dell'opera cinematografica, troppo spesso trascurato o non sufficientemente considerato: la sceneggiatura.
Se non avete mai visto Gli ultimi fuochi di Elia Kazan, il film che ho scelto per questo terzo appuntamento, beh! ... Cercate di farlo al più presto! 
E' uno di quei film che merita più di uno sguardo superficiale ... per più di un buon motivo: primo fra tutti, l'eccellente sceneggiatura di Harold Pinter, tratta dal romanzo The Last Tycoon di Francis Scott Fitzgerald; sceneggiatura sublimata dal fascino visivo dell'obiettivo analitico di Kazan; e per la presenza di un intenso Robert De Niro, all'interno di uno straordinario cast di superstar.
Il film appartiene a quel filone hollywoodiano che è passato nella letteratura critica come "film on film" o, più precisamente nel caso di specie, "Hollywood on Hollywood", che ha tradizionalmente riscosso un buon successo di pubblico, non sempre suffragato, però, dal consenso della critica specializzata più "raffinata".
The Last Tycoon, pur presentando moltissimi degli elementi tipici di questo sottogenere un po' ruffiano e talvolta ambiguamente autocelebrativo, riesce a filtrare i codici di genere attraverso uno stile di ripresa ricco e affascinante, fondato su una capacità di affabulazione davvero non comune, e a riscattare la qualità complessiva dell'opera, spingendo fino alle estreme conseguenze le situazioni-cliché codificate dal sistema classico di rappresentazione (pensiamo a film come Il bruto e la bella di Vincente Minnelli, o a E' nata una stella di George Cukor, o, ancora, a Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz).   
Un esempio sfavillante di questo ipnotismo narrativo è dato dalla scena che ho scelto per Voi lettori di FATTI A PEZZI; scena in cui un illuminato produttore (Monroe Stahr/De Niro) di una major hollywoodiana (la International World Films, nella finzione) di-mostra a un presuntuoso letterato (presumibilmente un romanziere), "aspirante sceneggiatore" (Boxley/Donald Pleasence), la sostanziale differenza tra scrittura cinematografica e scrittura letteraria, la profonda differenza, cioè, tra pensare per immagini e pensare per concetti.
Il tratto distintivo della sceneggiatura di Pinter sta nell'assumere come motore di tutta la narrazione il gioco dialettico vero/falso, vita reale/cinema; gioco che trova la sua forma più compiuta nella scena in esame.
La centralità di questa scena nel contesto dell'impianto narrativo dell'opera è ribadita nel pre-finale del film, in cui viene riproposta, in modo sostanzialmente identico, con l'importante variazione che, in questo secondo caso, è rivissuta, in una sorta di monologo onirico, dal solo Monroe Stahr.
L'incontro produttore-sceneggiatore, girato secondo i canoni dell'estetica classica campo/controcampo, ma con un'incredibile serie di variazioni di angolazione e di inquadrature che sfruttano l'intera scala dei piani, in realtà affronta con spirito assolutamente anticlassico la fondamentale questione del rapporto tra rappresentazione e narrazione, tra narrazione cinematografica e narrazione letteraria e, su un piano più alto e definitivo, tra fiction e realtà.
La dinamica del gioco è immediatamente esplicitata, la situazione è assolutamente ideal-tipica: interno di un ufficio dirigenziale di una major hollywoodiana; s'incontrano un produttore, due sceneggiatori professionisti dipendenti degli Studios (e quindi collaboratori diretti e abituali del produttore) e un romanziere ingaggiato ad hoc per collaborare con loro alla riscrittura di una sceneggiatura che incontra qualche difficoltà nel decollare.
Questo il background che la scena suggerisce e presuppone.
Il romanziere ha chiesto un colloquio con il produttore per lamentarsi dell'apporto scadente dei suoi due "impiegati" e cerca di difendere animatamente i propri contributi allo script che, invece, il produttore stesso dimostra subito di ritenere del tutto inadeguati.
Fin dal primo livello di analisi si può cogliere un importante plus di valore nel tentativo di focalizzare subito l'attenzione su ciò che sarà il nucleo tematico dell'episodio: il momento creativo, il momento in cui l'idea, il concetto, diventa forma visiva capace di svolgere una funzione mediatica tra realtà e finzione artistica.
Lo svelamento del mistero della creazione trova la sua piena dimensione nella seconda fase della scena, che vede assoluto protagonista il produttore che da un saggio di ciò che significa "fare cinema”.
Pinter e Kazan eliminano qualsiasi equivoco, non c'è spazio per elaborazioni intellettualistiche, non c'è spazio per enunciati teorici; l'unica risposta possibile è la mise en scène.
Il produttore non spiega cosa sia il cinema ma mostra, e non potrebbe essere altrimenti, il cinema.
Lo mostra attraverso le sue dinamiche di rappresentazione fondate sull'ambiguità dei ruoli, sulla molteplicità dei punti di visione, sui percorsi incrociati degli sguardi, sugli effetti e sull'attesa della sorpresa, sull'inutile che si trasforma nell'indispensabile; soprattutto sulla sua struttura essenziale di doppio della realtà o realtà doppia; ma la doppiezza è ancora ambiguità, e ci muoviamo sempre nel cono d'ombra della finzione.
Un doppio falso, infedele, artefatto come solo il set sa e può essere; ma pur sempre un doppio nel quale, come in uno specchio deformante, si possono cogliere dei punti di contatto con la realtà: ecco enucleata la vera essenza della fiction.
Ad un secondo livello di analisi si riscontra un secondo grado di finzione, o più precisamente, un raddoppiamento della finzione stessa; così, sulla natura del set come doppio della realtà, s'innesta la duplicazione del "gioco degli specchi": il cinema che parla di se stesso, lo specchio davanti allo specchio, in un vortice di rimandi e di sguardi deformati e deformanti.
Ma se il cinema è costitutivamente fiction, la menzogna è costitutivamente cinema, e il cinema che parla di sé non può che mentire due volte.
La duplicazione della finzione costituisce dunque la struttura de Gli ultimi fuochi, struttura compendiata in poco più di quattro, memorabili, minuti che trovano il loro degno epilogo con lo stacco, a tutto schermo, sul logo della International World Films che aumenta, se possibile, il grado di finzione della scena connotandola, ulteriormente, come “film in film”.
A questo punto è il caso di aggiungere un'altra notazione, più sottile, sulla natura replicante del rapporto tra la sceneggiatura di Pinter (primo stadio della finzione-cinema) e il romanzo di Fitzgerald che è già di per sé un raddoppiamento della realtà e quindi finzione.
Siamo alla ripetizione ossessiva, e forse delirante del sovrapporsi dei vari livelli di falsificazione della realtà offerti dalla scena, che presenta una molteplice stratificazione: finzione (simulazione del produttore), della finzione (il film stesso), della finzione (il romanzo di Fitzgerald), di una realtà, il mondo degli Studios hollywoodiani, che in sé era (è?) una sorta di realtà virtuale in cui finzione e dissimulazione costituivano (costituiscono?) la pratica più diffusa, se non la cifra esistenziale. 
Monroe Stahr, il "creatore di menzogne", che nel finale del film s'immerge nell'oscurità di un teatro di posa, rappresenta simbolicamente proprio quest'incapacità di rinunciare al sogno della finzione e al mistero perverso della menzogna scenica.
E' quest'ultimo livello di finzione che intreccia vita e sogno, forse, che non è stato completamente recepito e sviluppato del discorso di Kazan, oggi forse non più originalissimo ma pur sempre frequentato, con minore sensibilità e con minore sincerità, se non, addirittura, con facile opportunismo. Ed è su questo versante che Kazan/Autore affonda il bisturi nelle convenzioni, nei cerimoniali, nei percorsi rituali e autocelebrativi dell'Hollywood System, coinvolgendo lo Spettatore nella costruzione della falsificazione e al tempo stesso rendendolo incapace di rinunciarvi: Monroe Stahr siamo noi.


Il Video







Elia Kazan


Piccolo Dizionario Tecnico

Campo: spazio delle immagini determinato dall'inquadratura, s'identifica con il cosiddetto piano di ripresa, ed è convenzionalmente riferito alla figura umana sullo schermo.
Si va dal campo lunghissimo (cll) che comprende l'orizzonte ed è il più ampio, al primissimo piano (ppp) che comprende solo il volto umano, e al particolare, ancora più ristretto (una mano, gli occhi, etc.).
Controcampo: inquadratura effettuata da un punto di vista totalmente opposto a quello immediatamente precedente; provoca un "salto visivo" rispetto al campo.