venerdì 28 febbraio 2014

Stray Dog ... fughe disperate


Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire

 Stray Dog - 1949 - di Akira Kurosawa

Fuga dalla vita

«Darei cento Rashomon per Stray Dog», così scriveva George Sadoul nelle Lettres Françaises del 1961, non appena ebbe l’occasione di vedere il film di Akira Kurosawa, dodici anni dopo la sua prima proiezione.
Se pensiamo che Rashomon è il film che ha dato la fama al grande maestro giapponese, vincendo il Leone d’oro a Venezia nel 1951, e l’Oscar pochi mesi dopo; se pensiamo che Rashomon è tuttora generalmente considerato il capolavoro di Kurosawa (capolavoro cui ha reso esplicito omaggio anche Martin Ritt nel suo “western-remake” The Outrage del 1964); e se pensiamo che addirittura Ingmar Bergman definì il proprio magnifico La fontana della vergine (1959) «una miserabile imitazione di Rashomon», cominciamo a farci un’idea attendibile della portata dell’affermazione di Sadoul e della qualità e del fascino visivo di Stray dog (tit. or.: Nora inu; tit. italiano: Cane randagio).
Il film è un viaggio nell’angoscia, nella depressione e nel degrado fisico e morale di un intero popolo (il popolo giapponese) e di un intero periodo (il periodo post-atomico).

Lo stile e la struttura di questo classico gendai-geki sono straordinariamente complessi; fondono in un insieme riuscitissimo atmosfere e schemi di un noir realista come The Naked City (1948, di Jules Dassin), il meccanismo narrativo fondato sulla testimonianza di Citizen Kane (1941, di Orson Welles), a tratti, la dilatazione temporale de L’année dernière à Marienbad (1961, di Alain Resnais), la desolazione degli ambienti urbani e l’ansia della ricerca dell’oggetto-feticcio di Ladri di biciclette (1948, di Vittorio De Sica), l’accuratezza tecnica di un “Hitchcock-movie”.
In un certo senso, Stray Dog è molti film, e non uno solo; ma è, soprattutto, un film sul destino e sull’angoscia quotidiana del vivere; è quasi un saggio antropologico sull’interazione tra ambiente ostile e formazione della personalità deviata.
“Appiccicoso” come il caldo infernale che opprime i personaggi del film, esasperato da un ricorso frequentissimo al flou che contribuisce a sfaldare e s-focare l’atmosfera; l’occhio-obiettivo di Kurosawa sta costantemente addosso agli attori; li segue, li insegue, li accarezza, li colpisce, li "spinge”, esaltandone i contrasti, per poi ritagliarne, improvvisamente, frammenti importanti, isolando particolari decisivi: come gli sguardi allucinati che inclinano verso l’espressionismo tedesco degli anni Venti, oppure come le scarpe sporche dell’assassino.
L’andamento di Stray Dog è fortemente caratterizzato da questo "dire per simboli”, da questa continua, premeditata sostituzione del tutto con la parte.
Così come questa dissezione dei corpi e degli ambienti, sapientemente articolata secondo un ritmo di milonga, produce una sensazione di straniamento che "tradisce" l’atmosfera da giallo-noir classico in favore della dimensione etico-esistenziale di una ricerca che è prima di tutto una ricerca d’identità: del detective Murakami, del bandito Yusa, dell’intero popolo giapponese appena uscito dai disastri della seconda guerra mondiale.
Nella scena dell’identificazione dell’assassino, che può essere considerata la scena-chiave, almeno sul piano della detective-story (ma non solo) assistiamo ad un raro esempio di suspense, in tutto degna del miglior Hitchcock, da Sabotage a Notorious, a Birds.
La scena, di un nitore cristallino, deve all’estrema fluidità dei movimenti di macchina, morbidi e armoniosi, supportati da un montaggio agile e particolarmente funzionale che alterna piani lunghi a inquadrature rapidissime, la propria capacità di empatizzare con il pubblico, trascinandolo, con il detective Murakami, sulle tracce del “cane randagio” Yusa.
La splendida e calibratissima panoramica da sinistra a destra, che c’introduce all’interno della sala d’attesa della stazione, permette d’inquadrare una per una le facce dei presenti, sostituendosi agli occhi indagatori di Murakami- Mifune, quasi in una simulazione di soggettiva.
Lo stacco alla fine del movimento panoramico, il ritorno in campo medio (in controcampo) con il repentino raccordo sull’asse in avanti sulla figura del detective; il contemporaneo attacco della voce over che riecheggia tutti i pensieri e i processi mentali di Murakami, esattamente come la mdp ne segue da vicino i movimenti, culminando in un intensissimo primo piano; tutto contribuisce alla grande armonia della scena.
Il successivo movimento panoramico che chiude il processo d’identificazione dell’assassino risulta perfettamente simmetrico a quello d’apertura di scena; ne riprende fedelmente il tempo d’esecuzione, l’ampiezza, l’angolazione di ripresa, riducendo solo la distanza e la direzione (questa volta da destra a sinistra); mostrando, però, non le facce, in questo caso poco significative, bensì le scarpe dei presenti, rivelatrici della fuga sotto il diluvio e della colpevolezza di Yusa, di cui non si è ancora conosciuto il volto, ma di cui si sono già intraviste le stesse scarpe in una precedente sequenza “premonitrice” (l’attentato all’ispettore Sato).
Nel momento in cui questo secondo movimento panoramico si ferma sulle scarpe infangate di Yusa, i piedi del fuggiasco sembrano animarsi, si scuotono, quasi avvertano lo sguardo penetrante di Murakami e dello spettatore insieme.
A questo punto Yusa, ancora inquadrato dai piedi ai polpacci, si alza e voltandosi di spalle si affaccia ad una finestra, la mdp lo “percorre” letteralmente in tutta la sua altezza, con una panoramica verticale dal basso in alto, risalendo fino alle spalle e alla nuca; solo ora, finalmente, dopo uno stacco in controcampo, il mezzo primo piano di Yusa riempie lo schermo, lasciando la figura di Murakami sullo sfondo, alle sue spalle, in un’emblematica inquadratura che incornicia i due grandi avversari, il cacciatore e la preda.
Finalmente la caccia è finita e l’assassino, il colpevole, il rifiuto della società, l’anima nera dell’umanità assume un volto per il detective e per lo spettatore.
Ma la scoperta è amarissima: Yusa ha una faccia normale, non è un mostro; è un uomo preoccupato, spaventato, in fuga da se stesso e dalle proprie azioni disperate; è un “cane randagio” non una belva sanguinaria. L’urlo del finale del film ne è una conferma straziante.



Il Video


Stray Dog (1949; titolo italiano: Cane randagio) di Akira Kurosawa from Fatti a Pezzi on Vimeo.




Akira Kurosawa


Piccolo Dizionario Tecnico

Effetto flou: “sfocatura”; messa a fuoco parziale, di solito si usa per mettere in risalto la figura in primo piano ( “a fuoco”) rispetto allo sfondo (“fuori fuoco”).
Voce over: è generalmente la cosiddetta voce narrante che si sostituisce al dialogo dei personaggi per spiegare alcuni passaggi e/o alcune situazioni del film.
Spesso può diventare la voce extradiegetica che dà la possibilità agli spettatori di ascoltare i pensieri di un personaggio (come nel caso qui analizzato).

mercoledì 16 gennaio 2013

À bout de souffle: la nouvelle frontière del jump cut

Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire

 À bout de souffle - 1959 - di Jean-Luc Godard

La rivoluzione in un respiro

Eccoci a un film francese che ha contribuito in maniera decisiva alla rivoluzione del linguaggio cinematografico.
Si può parlare di À bout de souffle (tr. it. “Fino all’ultimo respiro”) come della seconda svolta storica nell’ambito della tecnica e del linguaggio cinematografici, diciotto anni dopo il leggendario Citizen Kane di Orson Welles (1941).
Jean-Luc Godard, Nouvelle Vague, Cahiers du Cinéma, cinéma-vérité, André Bazin, François Truffaut; in buona sostanza è questa la catena di riferimenti e di associazioni spontanee che sorgono d’un tratto quando, in talune conversazioni, qualche “incauto” prova a nominare À bout de souffle.
Il film di Godard, del 1959, (primo grosso progetto dell’autore, ispirato da un soggetto di Truffaut), costituisce uno spartiacque nell’evoluzione dell’arte cinematografica, chiude con una serie di convenzioni e di codici formali fondati sull’estetica del montaggio invisibile e della dialettica campo/controcampo su cui era fondato il cinema classico hollywoodiano e allarga gli orizzonti delle possibilità espressive a disposizione dei filmmaker di tutto il mondo.
In qualche misura si può pensare ad À bout de souffle come al manifesto della nouvelle vague e dell’intero cinema moderno; un’opera che smantella i capisaldi di un’estetica consolidata per avviare un nuovo processo di ricerca e di arricchimento dell’universo cinematografico.
Per avere un’idea più precisa della reale portata e della forza dirompente di À bout de souffle bisogna pensare all’importanza che ha avuto il Manifesto Tecnico della Letteratura Futurista di Marinetti, nella storia della letteratura italiana (e non solo), o al ruolo svolto da Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, nella transizione verso la nuova frontiera della pittura contemporanea.
Costo basso (40 milioni di franchi vecchi), girato in sole 4 settimane, impianti scenografici azzerati, filmato en plein air, illuminazione artificiale ridotta all’essenziale, mdp a mano in stile Cassavetes, recitazione assolutamente libera e naïf, affidata ad una straordinaria Jean Seberg (già una star all’epoca), il cui personaggio è uno stupefacente cocktail tra il pericoloso appeal della femme fatal e l’innocenza luciferina di una baby doll e alla “rivelazione” Jean-Paul Belmondo, in una personalissima rivisitazione dell’eroe tragico del cinema noir: questo, in sintesi, il miracolo di JLG, premiato a Berlino per la migliore regia nel 1960.
Ma per JLG non si tratta di una semplice ostentazione di povertà di mezzi, originata da pruderie intellettuale, un po’ snob e un po’ narcisistica; si tratta di liberare programmaticamente il cineasta dai legacci delle ricche superproduzioni, si tratta di lavorare con materiali agili, si tratta di ottenere procedure snelle e veloci, si tratta, in definitiva, di raggiungere libertà e autonomia nel processo creativo; si tratta, ancora, di poter sperimentare e ricercare, improvvisando.
Tracciato il quadro dell’importanza storica di À bout de souffle tentiamo un rapido passaggio tra i frames del film di JLG, autore e intellettuale finissimo.
La quantità di innovazioni e di rotture del linguaggio codificato è tale che sarebbe impossibile enumerarle, dal parlare in macchina agli sconvolgenti e spiazzanti scavalcamenti di campo che fecero rabbrividire gran parte della critica (specialmente quella italiana!), dai raccordi volutamente e scandalosamente sbagliati sulla nuca dei personaggi (sottolineati dalla voce off che parla proprio della nuca in questione) al traballante andamento della macchina a mano; agli stacchi repentini da un ambiente all’altro senza alcuna mediazione formale convenzionale: dissolvenza, campo vuoto, cut-away … 
Ma questa mole di forzature del lessico filmico, mixate con formule anche notevolmente retrò come la tendina ad iride, in realtà, costituirà un’autentica riscrittura dei codici espressivi; riscrittura che negli anni a seguire sarà il punto di riferimento e di partenza per intere generazioni di audaci sperimentatori.
Indubbiamente l’utilizzazione sistematica e programmatica del jump cut (falso raccordo), in tutto il film, resta la cifra estetica di À bout de souffle; attraverso il jump cut, Godard opera, appunto, un taglio netto con il cosiddetto “cinema della trasparenza” e della continuità spaziale tipico della tradizione classica americana, scatenando in molta critica specializzata reazioni al limite dell’isterismo (ci si può fare un’idea leggendo il passaggio estratto dal Brown Film Society Film Bullettin).
Un esempio solare del jump cut elevato a sistema, lo ritroviamo in una scena minore, sul piano dello sviluppo narrativo, ma molto significativa sul piano dello sviluppo del nuovo linguaggio.
Michel Poiccard-Laszlo Kovàcs/Jean-Paul Belmondo, è un delinquente di mezza tacca ma molto particolare: un po’ poeta, un po’ filosofo esistenzialista, un po’ cialtrone; è in fuga continua, tanto dalla vita quanto dalla polizia, che lo cerca per l’uccisione di un poliziotto.
Nel suo girovagare clandestino Michel ruba un’auto lussuosa e la porta da un ricettatore per ricavarne dei soldi facili, ma il ricettatore lo identifica, attraverso la prima pagina del France Soir, come il ricercato per l’uccisione del poliziotto e a sua volta approfitta della situazione per tenersi la macchina senza pagare nulla.
In questo breve episodio narrativo (2’20” circa) Godard fornisce un’idea precisa di come il cosiddetto falso raccordo possa offrire la possibilità di costruire una scena, di per sé piuttosto convenzionale, con un crescendo sincopato di grande tensione drammatica, grazie alle fratture visive di un montaggio programmaticamente rivoluzionario.
16 stacchi concentrati in poco più di due minuti tra cui possiamo contare ben 11 jump cuts a fronte di soli 5 raccordi più o meno ortodossi: assolutamente sconvolgente!
Il dialogo-scontro tra il ricettatore e il nostro eroe risulta completamente ritmato da questo montaggio anticlassico che, piuttosto che nascondere le cesure del racconto filmico, punta proprio sull’esaltazione di queste incertezze; di quelle discontinuità del processo narrativo che sono perfettamente corrispondenti al reale scontro, prima verbale, poi fisico, tra i due personaggi.
All’incalzare della climax drammatica corrisponde, su un piano formale, la frequenza degli spezzettamenti di un montaggio articolato secondo raccordi sempre più ostentatamente falsi.
Così, troviamo ripetuti stacchi sul movimento dei personaggi che prosegue e si conclude sul raccordo successivo in maniera brusca e disomogenea (alterazione del raccordo sul movimento) al limite dell’overlapping; oppure l’alterazione delle distanze nel raccordo sull’asse e la ripetuta violazione della “legge dei 30°” (v. la voce jump cut nel PDT); operazioni assolutamente proibite dall’ortodossia classica, ma che riescono a trasmettere, splendidamente, la sensazione di disagio e di ansia del protagonista e la situazione di assoluta precarietà in cui si trova.
Evidentemente, ci troviamo al cospetto di una ridiscussione di tutto quanto il cinema classico aveva sempre postulato.
Non stupisce, dunque, come questa operazione di decostruzione e ricostruzione del linguaggio cinematografico non lasciasse indifferenti i cinéphiles e gli studiosi di tutto il mondo; così, se a Berlino, per esempio, Godard riceveva premi e riconoscimenti ufficiali, in Italia e negli States veniva stroncato, dai più, come “eretico” e provocatore, o addirittura incapace.
Gli addetti ai lavori non potevano non intuire la reale portata della proposta di Godard, attraverso À bout de souffle, e si comprende bene come proprio l’Hollywood System fondato sull’organizzazione industriale delle majors si sentisse maggiormente attaccato e messo in discussione da questa nuova frontiera estetico-filosofica e produttiva.
Infatti, come compresero tutti, più o meno rapidamente, si trattava di una rivoluzione che investiva non solo l’arte ma anche e soprattutto l’industria culturale cinematografica e la reale gestione di un certo tipo di potere che dal suo controllo proveniva.

Il Video

À bout de souffle (1959; titolo italiano: Fino all'ultimo respiro) di Jean-Luc Godard from Fatti a Pezzi on Vimeo.

À bout de souffle: “Dediche, citazioni e citati”

·         L’edizione francese del film è dedicata alla Monogram Pictures, casa di produzione minore degli USA, specializzata in B-movies.

·         Nel corso del film c’è un omaggio alla Hammer Film, casa di produzione inglese specializzata in film horror di qualità commerciale.

·         I personaggi citano romanzi, nel corso dei dialoghi, come Dans un mois dans un an e Aimez-vous Brahms? di F. Sagan.

·         Ci sono riferimenti per cinéphiles in diverse inquadrature: la sala cinematografica in cui si proietta Hiroshima, mon amour di Resnais; il manifesto di Ten seconds to Hell di Robert Aldrich; il manifesto dell’ultimo film con Humphrey Bogart, Il colosso d’argilla.

·         Si cita, attraverso uno dei due nomi del protagonista (Laszlo Kovàcs), un personaggio (interpretato dallo stesso Belmondo) di un film di Claude Chabrol dello stesso anno, À double tour (“A doppia mandata”).

·         Si citano, in vario modo, personaggi famosissimi, in ogni campo: Faulkner, Renoir, Mozart, Eisenhower, De Gaulle, Lenin, Aragon.

·         Si citano, e non poteva essere altrimenti, i mitici Cahiers du Cinéma.

·         Nel film ci sono delle comparse davvero speciali: il regista noir Jean-Pierre Melville (nella parte dello scrittore Parvulesco); il critico dei Cahiers du Cinéma André S. Labarthe (nel ruolo di un intervistatore di Parvulesco); il regista di commedie Philippe de Broca; il regista erotico José Bénazéraf; e, per finire, lo stesso Godard (nel ruolo del passante delatore).

La critica americana


“Breathless” [“À bout de souffle”] è un altro film senza scopo di Jean-Luc Godard, i cui dialoghi senza senso e il cattivo montaggio sono glorificati dai “teorici del cinema” (smettetela di ridere) come iniziatori di una nuova era del cinema, ma Hollywood chiaramente non gli presta alcuna attenzione, e voi vedete forse la “Nouvelle Vague francese” in testa alle classifiche dei botteghini? Io non credo. (…)

Infatti la occasionale libertà stilistica di “Breathless” fu tutt’altro che una scelta artistica ma piuttosto un atto di estrema pigrizia così come il tronfio Godard ha ridotto il suo film “epico” di 3 ore in uno “sminuzzato pezzo di merda” di 90 minuti.

(passo estratto dal Brown Film Society Film Bullettin dell’epoca).



Jean-Luc Godard
Piccolo Dizionario Tecnico



Scavalcamento di campo: il découpage classico è fondato sulla dialettica campo/controcampo, sul montaggio invisibile e sulla costruzione di uno spazio ideale di 180 gradi entro il quale si dispone l’ambiente di ripresa.

Per spiegare meglio, immaginiamo di trovarci di fronte ad una scena di dialogo; il découpage classico ce la mostrerebbe, idealmente, così



·         Campo medio (d’insieme): inquadratura laterale dei due personaggi l’uno di fronte all’altro (stacco).

·         Primo piano (campo): inquadratura frontale del personaggio A che parla (stacco).

·         Primo piano (controcampo): inquadratura frontale del personaggio B che risponde (stacco) …, e così via.

Ora, l’elemento determinante è che, una volta stabilita la posizione per la prima inquadratura d’insieme, la mdp si limiterà ad effettuare spostamenti semicircolari, da destra a sinistra, e da sinistra a destra, alternando campi e controcampi sui due personaggi ed evitando accuratamente di oltrepassare la linea immaginaria che unisce la fronte dei due personaggi stessi; dando luogo così, ad un ambiente di ripresa circoscritto in uno spazio fisico di 180 gradi.

Infatti, se la mdp operasse spostamenti così ampi da oltrepassare la linea immaginaria che unisce la fronte dei due personaggi, rompendo la linea ideale che delimita i 180 gradi, finirebbe con l’effettuare il proibitissimo scavalcamento di campo; ottenendo due risultati tradizionalmente ritenuti catastrofici sul piano della piena comprensione della scena da parte dello spettatore:

1)      inquadrare uno sfondo diverso rispetto all’inquadratura di partenza, con conseguente scambio delle posizioni dei personaggi sullo schermo (da dx a sx e viceversa); 2) agli occhi dello spettatore, i personaggi sembrerebbero guardare non più l’uno verso l’altro (come sarebbe normale), ma entrambi nella stessa direzione (alterazione del raccordo di sguardo).



Cut-away: letteralmente “troncare, recidere”/inserto; l’inserto (diegetico) è uno dei raccordi più utilizzati dal cosiddetto cinema della trasparenza.
E’ un piano di transizione che stacca da quello precedente (per esempio la scena di una partenza da una stazione ferroviaria) per mostrare un’immagine di transizione, appunto, che suggerisca l’idea del cambiamento di ambiente e del trascorrere del tempo (per esempio il treno in corsa), e che prelude ad un altro piano che mostrerà il luogo d’arrivo (per esempio la stazione ferroviaria di destinazione).
Altri piani di transizione, sono le dissolvenze (d’apertura, di chiusura e incrociata), oppure gli antichi 
titoli esplicativi in sovrimpressione (sempre meno utilizzati).

Campo vuoto: il campo vuoto è uno dei principali raccordi utilizzati dall’estetica classica; è uno dei “trucchi” cui si ricorreva abitualmente per “attenuare” la discontinuità spazio-temporale della sequenza; semplicemente, si tratta di conservare per un attimo la stessa inquadratura di un ambiente che, fino ad un istante prima, “conteneva” un personaggio, ora uscito dal campo di ripresa e diretto verso un altro luogo, che verrà inquadrato con il successivo stacco.

Jump cut: letteralmente “stacco netto”/falso raccordo; il falso raccordo è ciò che l’ortodossia classica definirebbe un raccordo “sbagliato”; cioè una nuova inquadratura, dopo uno stacco, che viola almeno 2 leggi fondamentali del montaggio invisibile e del cosiddetto cinema della trasparenza secondo le quali:
·         non si dovrebbero mai proporre due inquadrature consecutive dello stesso personaggio, o di uno stesso oggetto, non sufficientemente differenziate sotto l’aspetto dell’angolazione di ripresa (variazioni non inferiori a 30 gradi) o della distanza dal soggetto (raccordo sull’asse).
·         Non si dovrebbero mai proporre più piani di uno stesso personaggio che lo mostrino, in continuità, in luoghi diversi e in momenti diversi, senza la mediazione di piani di transizione che attenuino il salto e la discontinuità spazio-temporale della sequenza.

Raccordo sull’asse: il raccordo sull’asse è un altro artificio del découpage classico e consiste nel mostrare due momenti successivi di un’azione in due inquadrature consecutive, divise da uno stacco.
La seconda inquadratura è ripresa sullo stesso asse della prima inquadratura, cioè mantenendo lo stesso angolo di ripresa e la stessa prospettiva, ma a distanza minore (raccordo sull’asse in avanti), o maggiore (raccordo sull’asse indietro), a seconda dell’effetto che si desidera ottenere rispetto al soggetto in campo.
Viene frequentemente utilizzato per aumentare l’attenzione dello spettatore sul soggetto in campo, oppure per dare una visione più ampia del contesto in cui l’azione sta avvenendo, evitando di “distrarre” lo spettatore mutandone il punto di vista con una variazione d’angolo di ripresa inopportuna.

Raccordo sul movimento: è un'altra transizione molto diffusa, in cui un movimento iniziato nell’inquadratura precedente, dopo uno stacco, si conclude nell’inquadratura successiva, mantenendo il giusto continuum e le giuste proporzioni grafiche all’interno del piano di ripresa e “nascondendo” la meccanicità della narrazione.

Raccordo di sguardo: è, probabilmente, il più tipico e il più diffuso dei raccordi classici; consiste nel mostrare un personaggio che guarda qualcosa (o qualcuno) e, dopo lo stacco, mostrare immediatamente l’oggetto, o la persona, guardata dal personaggio nell’inquadratura precedente, nella posizione suggerita dall’inquadratura precedente.
Per esempio, se il personaggio X nell’inquadratura 1 sta osservando da un balcone qualcuno (o qualcosa) che in quel momento si trova fuori campo, nell’inquadratura successiva 2 (dopo lo stacco), il personaggio Y (o la cosa Y) sarà mostrato con una ripresa dall’alto; cioè dalla posizione che, a giudicare dalla inquadratura 1, possiamo attribuire al personaggio X.

Overlapping editing: letteralmente “montaggio sovrapposto”; l’overlapping editing è un particolare effetto di montaggio in cui la parte finale di un’azione, già mostrata nell’inquadratura immediatamente precedente, viene nuovamente riproposta all’inizio dell’inquadratura successiva.
Generalmente viene utilizzato, sul piano della narrazione, con funzioni di estensione temporale.

venerdì 6 aprile 2012

A Night at the Opera (la cabina esplode)


Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire


A Night at the Opera - 1935 - di Sam Wood

I Marx Brothers all'opera

In questo nuovo appuntamento ci occupiamo della comicità surreale e corrosiva dei Fratelli Marx.
Un terzetto incredibile composto da: Groucho (Julius Henry), leader carismatico del gruppo la cui popolarità è stata rinfrescata negli ultimi anni nelle vesti del fedele amico di Dylan Dog; Chico (Leonard), spalla ideale di Groucho nelle irrefrenabili escalation dialettiche; Harpo (Adolph Arthur), il più stralunato, assurdo e irriverente dei Marx Brothers.
A questo terzetto mitico e inossidabile si aggiungeva, fino al 1933 (Duck Soup), anno in cui si chiude il periodo Paramount, un quarto fratello, Zeppo (Herbert), sicuramente meno dotato e rappresentativo.
Gummo (Milton), il quinto fratello Marx, accompagnò la carriera dei più celebri parenti per tutto il periodo precinematografico, dal 1907 al 1920 circa.
La parabola cinematografica dei Marx Brothers si divide in due grossi periodi: il periodo Paramount (1929-1933) che ne segna l’ascesa e il successo, e il periodo Metro Goldwyn Mayer (1935-1941) che segna, forse, l’apice della popolarità dei fratelli, con Una notte all’Opera del 1935, primo film del ciclo MGM, ma anche l’inizio di un declino che proseguirà fino al definitivo tramonto, con gli ultimi due film girati per la United Artists: Una notte a Casablanca (1946) e Love Happy (1950).
Abbiamo scelto di occuparci proprio del già citato A Night at the Opera (Una notte all’Opera), per la regia di Sam Wood; uno dei film più celebri dei Marx Brothers.
Anche se i “puristi” preferirebbero altri titoli come, forse, Animal Crackers o Duck Soup, o Monkey Business, la scelta è motivata dal fatto che Una notte all’Opera è probabilmente il film che coniuga più felicemente le straordinarie qualità comiche, i tempi fulminanti e il continuo andare sopra e sotto le righe dei Marx Brothers con le esigenze di una sceneggiatura più fluida, meno frammentata, e quindi più facilmente digeribile da parte di un pubblico più vasto ed eterogeneo.
L’altro motivo che ci ha indotti a questa scelta, forse il più importante, è la presenza di una scena memorabile, tra le più note e ricorrenti nelle antologie marxiane: la scena della "cabina sovraffollata”.
Una scena già molto commentata e analizzata, ma al cui fascino e alla cui capacità di stupire e divertire, immutati negli anni, non abbiamo saputo resistere.
Prima di affrontare il cuore della questione, immergendoci nell’affollata cabina dei Fratelli Marx, una breve notazione metodologica: a qualcuno potrà apparire strano o poco corretto questo approccio "autoriale" all’opera dei fratelli Marx, trattandosi di attori e non di registi.
E il dubbio sarebbe persino legittimo se non fosse che ci troviamo di fronte all’ennesima particolarità del genio schizoide della strampalata famiglia.
In effetti, nel caso dei Marx Brothers, per quanto spesso s’intraveda, e si riconosca persino, la mano di ottimi o grandi registi, come Sam Wood, appunto, per Una notte all’Opera, o di Norman McLeod per Monkey Business e Horse Feathers, o di Leo McCarey per Duck Soup, sono la presenza scenica, la capacità mimica e mimetica, i funambolismi verbali e i virtuosismi acrobatici di Groucho & Co a dirigere, connotare, plasmare le azioni, le scene, le sequenze, infine il film.
Il fantastico talento nell’occupare lo spazio del profilmico, il campo di ripresa, il décor; la inusuale abilità nello stare costantemente in scena (tutt’altro che casuale il riferimento al teatro, vaudeville, da cui i Marx provenivano) dall’inizio alla fine del film.
Questi elementi costituiscono la cifra e caratterizzano la struttura di tutta la filmografia marxiana, garantendole un’impronta sempre riconoscibile e giustificandone un approccio analitico di tipo autoriale.
L’antefatto. Otis B. Driftwood/Groucho Marx è una sorta di trafficone che mira alla gestione del patrimonio della ricca ereditiera Mrs. Claypool/Margaret Dumont, che vuole entrare nell’alta società e che si è appena inserita nel mondo dello spettacolo mettendo sotto contratto una compagnia d’opera lirica italiana.
Dopo alterne vicende Driftwood e Mrs. Claypool si imbarcano per New York; al loro seguito s'imbarcano, clandestinamente, tre strani compagni di viaggio: Fiorello/Chico Marx, tuttofare della compagnia operistica, Tomasso/Harpo Marx, valletto del grande tenore Lassparri, e Ricardo Baroni/Allan Jones, cantante minore segretamente innamorato di Rosa Castaldi/Kitty Carlisle, primadonna della stessa compagnia, amata anche, ma senza corrisponderne il sentimento, dal tenore Rudolfo Lassparri/Walter Wolf King.
In questo complicato intrigo impostato sugli schemi del melodramma classico, svolto a un ritmo scatenato, sempre in bilico tra ciò che negli anni successivi sarà definita screwball comedy e lo stile slapstick, i Marx Brothers spadroneggiano, mandando a rotoli la logica del racconto e la logica comune.
Ma torniamo alla nostra cabina: la scena si apre con Driftwood che arriva danzando lungo il corridoio e si ferma davanti alla porta della cabina numero 58, seguito dal facchino che trasporta il suo enorme baule; Driftwood manifesta immediatamente perplessità circa le dimensioni di quella che lui definisce prima una “gabbia” e poi una “cabina telefonica”, tanto che suggerisce al facchino di mettere la cabina nel baule!
Rimasto solo nella minuscola cabina, Driftwood apre il baule dal quale spuntano Fiorello, Ricardo e, da un cassetto, il dormiente Tomasso, tutti e tre clandestini.
Dopo alcuni scambi nel più perfetto non sense marxiano, Driftwood si affaccia sul corridoio e, chiamato lo steward, ordina un pranzo che, grazie al contributo dei clandestini, assume le proporzioni di un vero banchetto.
E’ a questo punto che ha inizio una sarabanda circense indimenticabile.
In rapida successione, con una segmentazione delle inquadrature estremamente rarefatta, entrano nella cabina, che già conteneva a fatica i quattro e il baule: due cameriere con lenzuola e coperte per preparare il letto, l’idraulico per riparare il riscaldamento, la manicure con la sua cassetta per la toeletta, l’assistente dell’idraulico con tutti gli attrezzi, una ragazza svampita alla ricerca della zia Minnie (!?) la donna delle pulizie con tanto di secchio e ramazza, e infine quattro camerieri, con altrettanti giganteschi vassoi da portata, per servire il pranzo.
Il livello di saturazione raggiunto dalla scena e dal campo di ripresa è assolutamente straordinario: una tale folla di cose e di persone che, per di più, cercano (indipendentemente dalla presenza di tutti gli altri) di svolgere il proprio compito, in un ambiente così ridotto, rende assolutamente surreale la situazione.
Tutta la scena è sviluppata con una semplicità di ripresa, e di quasi totale assenza di movimenti di macchina (non ce ne sarebbe neanche lo spazio!), del tutto spiazzante.
Tutto il senso e il fascino della scena sono riposti nei dialoghi tipici dell’idioma marxiano, e nell’assurdità della situazione, oltre che sul contrasto sublime fra il precipitare degli eventi e l’aura serafica di Driftwood, che pensa persino di “sfruttare la comodità” della manicure.
Dicevamo del linguaggio cinematografico tanto piano e lineare quanto il linguaggio dei Brothers risulta surreale e intermittente.
La mdp è sempre ferma, inquadrature fisse, per lo più in campo medio, pochissimi stacchi (6, all’inizio, durante l’ordinazione) per spostare la visione dall’interno all’esterno della cabina, come per mettere in comunicazione i due mondi, quello dell’assurdo e dell’alogico (la cabina) e quello della normalità e della logica (il corridoio all’esterno).
All’interno della cabina, pur immersa nel caos appena descritto, la mdp rimane immobile, in campo totale, impassibile, quasi sopraffatta dal movimento claustrofobico dei personaggi.
Ancora pochissimi stacchi su alcuni particolari, il piede di Harpo e la mano di Chico sulla cassetta della toeletta, l’inquadratura su Harpo che dorme nel cassettone del baule, un primo piano di Groucho e della manicure; niente più.
Si rinuncia persino all'uso del recadrage e i cambiamenti di posizione della mdp non sono più di due o tre, di cui uno solo significativo.
Tutto questo proprio per riequilibrare la frenesia dei personaggi; con una mdp ballerina si sarebbe ottenuto un effetto ubriacante per lo spettatore; e poi, il vero godimento, in questo caso, sta proprio nella visione di tutto l’ambiente di ripresa e non nella sua scomposizione.
Quando la situazione ha raggiunto il parossismo con Tomasso che si getta, ancora dormendo, sui vassoi di portata, arriva Mrs. Claypool (che aveva un appuntamento con Driftwood) a "sbloccare" l'intricatissima e ormai insostenibile situazione.
Mrs. Claypool, ignara, apre la porta della congestionatissima cabina che esplode letteralmente, come un tappo dalla bottiglia di champagne, lasciando schizzare fuori tutti i personaggi che si riversano sul corridoio, dando il via alla dissolvenza in nero che chiude l’episodio.
L’operazione di decostruzione del principio di realtà e delle sue logiche comportamentali è completa.

  Il Video 

Fratelli Marx_la_cabina_esplode (Una Notte all'Opera) from Fatti a Pezzi on Vimeo.


quattro dei Marx Brothers
Sam Wood


Piccolo Dizionario Tecnico 

Profilmico: si definisce “profilmico” tutto ciò che “entra nell’obiettivo” della mdp e che si trova “in campo”, appositamente per essere filmato; cioè tutti quegli elementi che compongono scientificamente l’ambiente di ripresa (oggetti, arredamenti, personaggi) e che rendono possibile la “messa in scena”.

Screwball comedy: lett. “commedia svitata”; variazione sul genere della commedia che per il suo ritmo frenetico, e per la catena ininterrotta di gag, trascina lo spettatore in un vortice di situazioni divertenti e paradossali, senza soluzione di continuità.

Slapstick: lett. “spatola di Arlecchino” (la tavoletta di legno che usavano i comici per simulare il rumore di una colluttazione; la “slapstick comedy” (la commedia delle “torte in faccia e delle bastonate”) costituisce una variazione sul genere della commedia sul modello delle prime comiche alla Mack Sennett, Ridolini, Buster Keaton, Stanlio & Ollio, ecc.; comiche il cui principale divertimento si basava sul continuo lancio di torte in faccia, scambi di colpi “proibiti” e inseguimenti affannosi.


Campo totale: è un tipo d’inquadratura in cui si definisce la rappresentazione, per intero, di un ambiente: di un esterno circoscritto oppure di un interno (come in questo caso specifico).

Recadrage: lett. “re-inquadratura”; consiste in brevissimi e impercettibili movimenti della macchina da presa che hanno lo scopo di mantenere il giusto rapporto tra le figure in campo e la cornice dell’inquadratura, conservando il giusto “equilibrio” grafico dell’immagine.

Dissolvenza in nero: è la classica “dissolvenza di chiusura” in cui l’immagine scompare progressivamente sullo schermo che diventa progressivamente nero; è un’inquadratura di transizione che serve a segmentare i vari “episodi” di un film.

sabato 24 marzo 2012

Tilai (il ritorno di Saga)


Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire


Tilaï - 1990 - di Idrissa Ouedraogo

Tilaï: l'amore negato

Tilaï (La Legge, 1990), di Idrissa Ouedraogo, costituisce un raro esempio di circolazione, seppure limitata a pochi eletti circuiti, di film prodotti in Paesi che vivono ai margini della grande industria culturale hollywoodiana ed europea e che riescono ad essere distribuiti grazie ad interventi come l’EFDO, programma M.E.D.I.A. dell'Unione Europea.
Il film di Ouedraogo è una co-produzione Burkina Faso/Svizzera/Francia, è completamente ambientato nel vecchio Alto Volta, oggi Burkina Faso, nei villaggi di Koumbri e Komsilga, e rappresenta uno dei migliori progetti realizzati grazie al sostegno finanziario di diversi enti europei, in particolare francesi (“Gran Premio della Giuria” a Cannes nel 1990).
Il film di Ouedraogo, all’epoca trentaseienne, con già sette titoli all’attivo, tra cui l’eccellente Yaaba (1989), affronta un tema classico della letteratura e della cinematografia mondiale: “l’amore negato”; ma lo fa in modo politico e antropologico, toccando quelle corde di universalità che raramente, anche i più grandi, riescono a sfiorare.
Tilaï risulta tutto giocato su una doppia contrapposizione dialettica sviluppata, contemporaneamente, all’interno del registro estetico-formale e all’interno del registro della narrazione, della affabulazione.
Sotto l’aspetto della visione e della regia, sempre molto lucida e misurata, il film si muove tra i grandi spazi desertici che avvolgono i pochi e poveri villaggi disseminati qua e là, e gli spazi chiusi, angusti, determinati dai recinti all’interno dei villaggi stessi.
Sotto l’aspetto dei contenuti, il processo narrativo si dipana attraverso la fenomenologia del conflitto tra le infinite possibilità e libertà offerte dallo spazio aperto e le barriere culturali imposte dalle convenzioni e dalle regole del vivere in comunità, dalla famiglia stessa, all’interno dello spazio fisico del villaggio.
L’essenza del conflitto amoroso ha regole precise, tanto in Burkina Faso quanto nell’Occidente industrializzato; che poi le difficoltà, gli impedimenti, le sofferenze, sorgano da leggi e questioni etiche, etologiche potremmo dire, molto differenti, rappresenta solo il "tratto culturale" della grande battaglia che l'uomo conduce sulla terra.
Ciò che più conta, per Ouedraogo, è la ritualità del conflitto tra dimensione sociale e dimensione individuale; conflitto che risiede sempre sui medesimi stati dell’anima, sulla profondità e l’esplosività dei sentimenti che torcono le viscere e sull'indifferenza della Legge.
L’ordine costituito, la comunità del villaggio, impone vincoli e costrizioni, non risparmia neppure torture, “suicidi d’onore” pubblici e omicidi punitivi: l’amore possibile del villaggio esclude completamente l’amore impossibile dei veri amanti.
Le dissoluzioni delle famiglie e dei legami di sangue vengono decretate da un ferreo codice d’onore che soggioga qualsiasi affetto ed esclude qualsiasi ripensamento.
La macchina da presa (mdp) asseconda con sobrietà questo contrasto tematico, muovendosi con molta fluidità e discrezione tra gli spazi aperti che circondano il villaggio, teatro principale della vicenda, e lo spazio chiuso del villaggio stesso, con l’atmosfera simbolicamente asfittica che si respira a ridosso delle sue capanne.
Il luogo-chiave del film è costituito da quella zona franca tra deserto e villaggio rappresentata dallo spazio intermedio situato tra il perimetro del villaggio stesso e lo spazio aperto e indifferente del deserto circostante.
In questa sorta di limbo si svolgono le due scene fondamentali del film: il finale tragico in cui si compie il “delitto d’onore” richiesto dalle regole della comunità; l’incontro-scontro che dà inizio alla vicenda drammatica, con l’arrivo di Saga/Rasmane Ouedraogo che torna, dopo due anni di assenza, a sconvolgere le tranquille regole della comunità, rivendicando il diritto di sposare Nogma/Ina Cisse, andata nel frattempo in sposa al padre di Saga stesso.
E’ appunto in questa scena iniziale che si manifesta subito la disposizione “strategica” delle due parti in conflitto: l’elemento di disturbo, anarchico e dissolutore, che rivendica i diritti della passione e del sentimento e l’intera comunità, schierata sulle posizioni consolidate dalla tradizione.
Questa “guerra dei mondi” si configura come uno scontro tutto risolto all’interno dello stesso nucleo familiare; il primo a fronteggiare Saga e a rivelargli lo stato delle cose è Kougri/Assane Ouedraogo, il fratello di Saga.
Kougri che pure affettivamente è solidale con Saga, assume il compito di portavoce della comunità e della legge.
Il confronto tra i due fratelli è rapidissimo, secco; occorrono pochissime parole per chiarire situazione e ruoli.
Ouedraogo isola subito le due figure principali della scena, Saga che suona il corno per annunciare il suo arrivo, Kougri che esce dalla capanna e si rivolge a Nogma per tranquillizzarla.
Segue un campo lunghissimo, ripreso dalla semisoggettiva di Saga, del villaggio che si anima, simile a un formicaio; lentamente la macchia bianca di Kougri si stacca dal resto del gruppo e avanza verso Saga che a sua volta si muove per andargli incontro.
I due stacchi successivi ci propongono prima Saga che scende dalla collinetta e poi Kougri che avanza a grandi passi nella pianura fino a raggiungere Saga in un faccia a faccia in primo piano.
Altri due stacchi rapidi e incisivi ci mostrano gli altri protagonisti della storia, incorniciandoli, per coppie, in due brevissime inquadrature: la prima coppia è costituita dal padre di Saga che trattiene Nogma, la seconda coppia dalla sorella minore di Nogma e dalla madre.
Con un ulteriore stacco si torna su Saga e Kougri che stanno discutendo; la mdp si limita ad inquadrare lo spazio, la porzione di spazio in cui i personaggi si muovono animando l’inquadratura.
La discussione si esaurisce velocemente e mentre Saga, sentendosi tradito, volta le spalle a Kougri e si allontana verso la collinetta, nell’inquadratura successiva il capo villaggio si avvicina a Kougri e quando i due si voltano e tornano verso il centro del villaggio, lo sguardo di Ouedarogo torna ancora da Saga che, solo, si sta a sua volata allontanando fino a diventare un figura appena percettibile, in campo lunghissimo, nello spazio aperto e solitario del "fuori villaggio". 
La mdp rispecchia fedelmente l’estrema misura con cui Saga e Kougri si affrontano; non ci sono movimenti di macchina, la presentazione dello spazio del profilmico viene data attraverso un montaggio asciutto e perentorio, fatto di riprese fisse in cui sono i personaggi a muoversi dentro la cornice dell’inquadratura.
Personaggi i cui movimenti sembrano rispettare un preciso ordine gerarchico, ordine confermato dalle inquadrature di gruppo in cui si muovono solo i protagonisti della storia, circondati dall’immobilità generale.
Ouedraogo sembra voler insistere, con il suo stile netto e quasi antidrammatico, sul contrasto eternamente esistente tra la vitalità che anima i personaggi travolti dalla passione e che grazie a questa passione diventano portatori di istanze rivoluzionarie e liberatrici, e la fissità del gruppo, omogeneamente compatto, a rimorchio del carro delle convenzioni.
E' già tutto annunciato, sin dal titolo. Il conflitto tra legittimità e potere, tra diritto positivo e diritto del cuore ha scelto le sue vittime e il richiamo all'Antigone di Sofocle non sembri azzardato: ci sono conflitti che sono universali e attraversano l'animo umano appena "travestiti" da culture diverse. E' questo il messaggio più grande di Tilaï. 
Il Video 

Tilai (1990) di Idrissa Ouedraogo from Fatti a Pezzi on Vimeo.

Idrissa Ouedraogo
Piccolo Dizionario Tecnico

Campo lunghissimo: è un tipo di ripresa molto particolare, che serve ad esaltare la presenza del paesaggio; nel cll la figura umana è ridotta a semplice elemento nell’orizzonte più ampio del paesaggio.

Semisoggettiva: è un'inquadratura che, come la soggettiva, mostra il punto di vista del personaggio; ma sfruttando un'angolazione di ripresa lievemente differente, non ne rispecchia fedelmente la posizione dello sguardo; nella semisoggettiva entrano in campo anche la nuca e le spalle del personaggio.

Profilmico: si definisce “profilmico” tutto ciò che “entra nell’obiettivo” della mdp e che si trova “in campo”, appositamente per essere filmato; cioè tutti quegli elementi che compongono scientificamente l’ambiente di ripresa (oggetti, arredamenti, personaggi) e che rendono possibile la “messa in scena”.

sabato 17 marzo 2012

Amarcord (aspettando il REX)


Fatti a pezzi ... brandelli di cinema da ricucire


Amarcord  - 1974 - di Federico Fellini

Aspettando la magia del Rex

Se il cinema è il luogo del sogno e il set è il luogo del cinema, sicuramente Federico Fellini è il poeta del set. Poesia che si dispiega in tutti i suoi film, da La Strada a La Voce della luna e che tocca uno dei suoi vertici assoluti nell'opera che, più di ogni altra, rappresenta la celebrazione sincera della memoria, dell'adolescenza e dell'ingenuità: Amarcord.
Amarcord è costruito come un'antologia di episodi di vita provinciale, ambientati in una Rimini anni '30 rigorosamente finta e interamente ricostruita a Cinecittà.
Da questo mosaico di episodi scaturisce una galleria di "quadri" che a volte si esauriscono nella dimensione del semplice bozzetto pittoresco, a volte, invece, possiedono il respiro pieno dell'affresco, potente e suggestivo, riuscendo sempre a raccontare con sincerità la vita quotidiana e meno quotidiana di una piccola città della provincia italiana (il Borgo nel film, Rimini nella realtà presa a modello) con tutte le situazioni tipiche e macchiettistiche, il tessuto culturale e i "personaggi" del luogo, immersi in una dimensione di ordinario grigiore e di umanissimo calore, di desideri irrealizzati, di accettazione serena, ma non rassegnata, della vita. 
Uno di questi "affreschi", probabilmente il più riuscito, sicuramente il più famoso, è costituito dalla sequenza del Rex.
La sequenza del Rex racconta l'episodio del passaggio del transatlantico "Rex" proveniente dall'America, addirittura «la più grande realizzazione navale del regime», a largo delle acque del Borgo; passaggio annunciato dalla propaganda fascista e atteso con grande trepidazione dalla popolazione della piccola città di provincia, strappata per un giorno alla mediocrità quotidiana e chiamata all'appuntamento con la "storia".
La sequenza, che ha una durata complessiva di 6'46", è suddivisa in tre sequenze interne ed è prodigiosamente concepita come un piccolo film dentro al film: la prima sequenza, che potremmo intitolare "la partenza", costituisce il prologo dell'episodio e descrive l'attesa e il fermento che animano Il Borgo la mattina del giorno fatidico.
Con il talento visionario che lo ha sempre contraddistinto e con l'uso di un montaggio che si fa ad ogni sequenza più serrato, in un crescendo di tensione drammatica, Fellini opera una scelta formale che si dimostra in perfetta sintonia con il sentimento e lo stato d'animo di trepida attesa e fervida agitazione che percorrono le strade del Borgo.
La macchina da presa (mdp) è in costante movimento, un movimento così fluido e naturale da risultare quasi impercettibile; come volesse tradurne fisicamente lo stato di euforia, "aderisce" ai personaggi, li accompagna, via via che animano il set, lungo il percorso che li condurrà al punto in cui passerà il Rex (8 km. al largo), seguendoli o precedendoli con lunghi e lenti carrelli in campo medio o in piano americano.
La sequenza presenta 15 stacchi in poco più di due minuti; utilizzando carrellate laterali, carrellate in avanti e carrellate oblique; effettuando movimenti di macchina, alternativamente, da destra verso sinistra e viceversa. 
Fellini affida a questo girovagare, sapientemente confuso, della mdp, il compito di avvicinare lentamente lo spettatore al momento culminante, conducendolo verso la spiaggia; dispensando, sapientemente, quei tocchi di colore e di calore che ne fanno un vero "poeta di immagini", incline anche a qualche dotta citazione (per es. la scelta, ripetuta, di far parlare in macchina i suoi attori, rivolti direttamente al pubblico, artificio molto caro a Ernst Lubitsch, padre della sophisticated comedy).
Il prologo si chiude con due stacchi netti sull'inquadratura in campo medio del personaggio soprannominato "La Volpina", che dalla spiaggia guarda gli altri partire, e sull'inquadratura in campo totale della piazza del Borgo, deserta (con la sola presenza di un cane randagio).
Completamente diversa la costruzione della seconda sequenza, molto breve ma estremamente significativa, che potremmo intitolare "il viaggio".
Infatti, strutturata con un montaggio più serrato (8 stacchi in meno di un minuto), la sequenza si affida a riprese effettuate sopra le imbarcazioni dirette verso l'appuntamento col Rex, con la mdp ferma sui personaggi, rivelando un'attenzione maggiore nella presentazione delle facce e dei singoli caratteri. Il finale di questa seconda sequenza, girato con una luce crepuscolare, introduce l'atmosfera di festa popolare, d'incanto e di magia che costituiscono l'essenza della sequenza successiva: il momento del passaggio del Rex.
Sicuramente una funzione molto importante nella costruzione della magia dell'episodio del Rex, è svolta dall'uso dell'illuminazione che segue una anticlimax, simmetrica rispetto all'uso dei movimenti di macchina, passando dalla luce diffusa della prima sequenza che determina una rappresentazione omogenea dello spazio con i personaggi avvolti morbidamente dalla luce del giorno, alla luce dinamica e semicontrastata del crepuscolo della seconda sequenza, che mette in risalto anche l'effervescenza degli stati d'animo; per giungere, infine, alla luce diretta e molto contrastata del notturno della terza sequenza, in cui volti e ambienti vengono scolpiti da controluce molto netti e da una luce laterale (fill light) molto decisa che mette in risalto le sfumature chiaroscurali delle emozioni. 
Un contributo decisivo, in termini di costruzione dell'atmosfera, lo fornisce la fantastica musica di Nino Rota che fa da contrappunto fedele, con le sue variazioni sul tema, alle "variazioni di tono" della sequenza.
Il Rex: la terza sequenza interna, che conclude il segmento in esame, è la più lunga delle tre (poco meno di quattro minuti); è montata con 21 stacchi e 2 dissolvenze ed è divisa in tanti "quadretti" di presentazione dei vari gruppi di personaggi in attesa del passaggio del Rex.
Qui lo sguardo della mdp si fa più intenso, alla ricerca del viso e delle espressioni più nascoste; ne conseguono un utilizzo molto ristretto della scala dei piani, di cui si privilegiano mezzi primi piani e primi piani, e una progressiva riduzione dei movimenti di macchina.
L'architettura narrativa del passaggio del Rex è concepita con estremo rigore formale: dopo il primo "quadretto" di presentazione (con il personaggio di Biscèin protagonista) che contiene il primo stacco, una dissolvenza incrociata sposta l'attenzione dello spettatore sulla famiglia di Titta Benzi, un po' il nucleo protagonista di tutto il film; segue una serie di tre passaggi principali per stacco su altri gruppetti, con la focalizzazione sul gruppo di cui fa parte Ninola, detta Gradisca (altro personaggio chiave del film); da qui si torna sul gruppo familiare di Titta, chiudendo così un percorso circolare che rappresenta il preludio al trasparire maestoso, fra le nebbie della notte, del mitico Rex che, cinque inquadrature dopo, annunciato da una potente sirena che squarcia il silenzio, invade completamente lo schermo, salutato dalla folla sognante e commossa.
A questo punto, la sequenza trova il suo finale puntuale nella dissolvenza incrociata "di richiamo" che ci trasporta dall'immagine del transatlantico che si allontana, al sussulto del mare che spazza via i sogni con un'ondata.
L'esito felicissimo della sequenza si sostiene su un miracoloso impianto scenografico, allestito nello Studio 5 di Cinecittà, dominato da un transatlantico che più "realisticamente finto" non si potrebbe immaginare.
"Realisticamente finto": definizione che è poi la cifra di tutto il cinema felliniano ma che mai, eccetto forse che in E la nave va, trova tanta forza immaginifica nel filtrare la menzogna della fiction attraverso la sincerità delle emozioni; menzogna che quanto più è dichiarata, in Fellini, tanto più produce illusione di realtà, grazie a una capacità guardare dove nessuno guarda mai e a una delicatezza di tocco che ne fanno un grande poeta visionario; la magia poetica del Rex nasce, dunque, dalla straordinaria abilità nel manipolare la "finzione" e trasformarla in "verità".
In conclusione, due notazioni sul versante dei codici della comunicazione: l'uso anticonvenzionale della dissolvenza che qui non ha compiti di sviluppo narrativo ma gioca esclusivamente sugli effetti emotivi d'atmosfera e la sottolineatura del personaggio del cieco che suona la fisarmonica, cui Fellini e il suo co-sceneggiatore Tonino Guerra fanno pronunciare una battuta chiave al momento del passaggio del Rex («Com'è?…. Com'è?… Com'è? ... Com'è?»), proprio come se gli attribuissero la funzione di trait d'union con il pubblico, e gli facessero chiedere l'approvazione alla riuscita della mise en scène.


  Il Video 



Federico Fellini

Piccolo Dizionario Tecnico
Campo medio: è un'inquadratura in cui la figura umana occupa circa un terzo dell'altezza dello spazio rappresentato.
Piano americano: è un'inquadratura in cui la figura umana è ripresa dalle ginocchia in su.
Parlare in macchina: il "parlare in macchina" si verifica quando l'attore pronuncia la propria battuta fissando l'obiettivo della macchina da presa, dando la sensazione di rivolgersi direttamente al pubblico; questo tipo d'inquadratura era assolutamente proibito nel cinema classico in cui era considerato un errore gravissimo e inaccettabile poiché distruggeva l'illusione di realtà che la scena si sforzava di ottenere, manifestando la consapevolezza, da parte del personaggio, della presenza della mdp e di un pubblico virtuale al di là dell'obiettivo.
Campo totale: è un tipo d'inquadratura in cui si definisce la rappresentazione per intero di un ambiente: di un interno o di un esterno circoscritto (per es. una piazza).
Illuminazione: sul set cinematografico l'illuminazione, che è un elemento fondamentale per la perfetta riuscita di una ripresa, può essere di due tipi principali, contrastata o diffusa.
L'illuminazione contrastata è ottenuta con l'uso di una sorgente di luce diretta che crea un forte contrasto fra zone d'ombra e zone di luce e viene utilizzata, prevalentemente, in situazioni di forte tensione drammatica; l'illuminazione diffusa prevede l'uso di molte sorgenti di luce d'intensità uniforme che forniscono una rappresentazione dello spazio molto omogenea e viene utilizzata, prevalentemente, in situazioni di maggiore distensione e "serenità".
Fill light: la fill light è una delle tre principali sorgenti di luce che si utilizzano, generalmente, sul set; la f.l. viene posta in posizione laterale rispetto a quella dei personaggi e serve a "scolpire" le figure, serve cioè a dare rilievo plastico e "dinamicità" all'immagine.
Dissolvenza: la dissolvenza si utilizza nel passaggio da un'inquadratura a quella successiva e può essere di tre tipi; d. d'apertura, quando l'immagine si materializza progressivamente sullo schermo vuoto; d. di chiusura, quando l'immagine scompare progressivamente fino a lasciare lo schermo vuoto; o dissolvenza incrociata, quando un'immagine si sovrappone per alcuni istanti all'immagine precedente occupandone progressivamente il posto sullo schermo. La dissolvenza, nel cinema classico, aveva la funzione narrativa convenzionale di unire, temporalmente e/o spazialmente, scene diverse.